L'intervista

Le interviste a protagonisti della scena parmigiana (e non solo) a cura di Francesca Ferrari, giornalista e critico teatrale.

LINO GUANCIALE: "Il Teatro è la mia Itaca"

Un recital, “Itaca”, che è un viaggio dentro la singolarità dell’esperienza individuale ma attraversa la storia comune, collettiva, traslata nel mito di Ulisse e in celebri, determinanti, passaggi tratti da opere letterarie, teatrali, cinematografiche e musicali. Due le guide eccellenti, l’attore Lino Guanciale e il compositore, nonché virtuoso della fisarmonica, Davide Cavuti, ad accompagnare il pubblico in questo percorso ideale di relazione emotiva ed intellettiva, in grado di fondere immagini, pensieri, letture e note in un’alchimia affascinante e fortemente inclusiva. L’appuntamento di sabato 21 luglio al Festival di Torrechiara Renata Tebaldi è di certo uno dei più attesi dell’edizione di quest’anno, non solo in virtù della formula artistica e della tematica evocativa dello spettacolo, ma anche per la coppia di talenti cristallini che ne è protagonista, in una armoniosa consonanza delle rispettive diverse forme espressive. E’all’interprete teatrale Lino Guanciale, attore straordinario, amatissimo anche dal grande pubblico per i suoi ruoli in fiction televisive di grande successo, che abbiamo rivolto alcune domande sul reading musicale, di cui è anche autore della partitura drammaturgica. Nell’occasione di dialogo, sempre piacevolissima e aperta, abbiamo scoperto qualcosa in più della sua personalità e dell’ispirazione al fondo del lavoro che presenterà a Torrechiara.

Un tema antico quello del viaggio. Attraverso quali forme e linguaggi vuole raccontarlo questo recital e, sul piano della realizzazione artistica, verso quali orizzonti intende volgere simbolicamente lo sguardo? “In Itaca il viaggio viene trattato come una categoria metaforica, nel senso che attraverso il mito fondante, iniziale, di Ulisse e alcune sue interpellazioni, quello su cui si intende lavorare è il pendant tra il viaggio e i concetti di conoscenza e apprendimento. La concentrazione del testo è posta sui vari significati possibili che la parola viaggio può racchiudere. La considerazione da fare, alla radice di questo lavoro che raccoglie monologhi, brani musicali, poesie, e parti cantate, è che in questa forma ibrida di teatro-canzone, se vogliamo definirla in modo più riconoscibile, l’artista ha l’occasione speciale di parlare di sé, del proprio percorso di crescita e conoscenza, cercando di costruire un’empatia diretta con il pubblico. Com’ è possibile questo? Ci si riconosce perché ognuno percorre un suo viaggio interiore, si pone una meta, ha una sua Itaca: un punto di partenza che, a volte, può coincidere con il punto di arrivo. Itaca è anche un esercizio pop. All’interno del recital si trovano luoghi tipici della memoria poetica nazionalpopolare: ad esempio, alcuni versi del XXVI Canto dell’Inferno di Dante, ‘A livella di Totò, oppure stralci da Pasolini. Quello che farò sarà condividere con gli spettatori alcuni passaggi del mio percorso di apprendimento, inerenti agli anni della mia formazione. ”

Denominatore comune dei brani letti e interpretati è il mare. Elemento naturale, ma anche carico di simboli, che svela quale immaginario e muove a che tipo di riflessioni più profonde? “Abbiamo attinto al modello simbolico forse più ricco di tutti. Ma il mare non è soltanto una delle frontiere del sublime kantiano. E’ anche una realtà di emergenza sensibile, che tutti conosciamo nella nostra attualità. In Itaca non tratto il tema dei rifugiati, anche se è un argomento che mi sta molto a cuore. Personalmente ho costruito altri recital che parlano proprio di questa emergenza, come Sfuggi la terra e l’onde un lavoro che ho scritto direttamente mutuato sul tema. Ma anche in quel caso ho sempre lavorato richiamandomi alla forza del mito, in quel caso particolare ad Enea. Questo perché sarebbe bene, io credo, che più spesso si ricordasse che all’origine dei miti, alla base della nostra memoria, si trovano talvolta vicende di esuli, di migranti, di profughi. In Itaca non tocco l’argomento così esplicitamente, ma vorrei che arrivasse al pubblico un’immagine positiva e forte dell’uomo come viaggiatore. Anche per chi è un viaggiatore nella conoscenza”

Una consolidata e attivissima collaborazione quella fra te e il maestro Cavuti. Come avete costruito insieme la struttura di Itaca? “Davide firma la regia e nella drammaturgia siamo fondamentalmente coautori. All’inizio lui mi ha fatto alcune proposte, dimodochè potessi pensare e creare l’impianto drammaturgico. Sono partito da questa domanda: quale filo rosso può collegare materiale apparentemente sparigliato? Cosa lega la poesia di Kavafis a Dante, Totò, Flaiano, Gadda, e persino alla celebre canzone di Dalla? Quali elementi entrano in gioco? La risposta che mi sono dato è stata molto semplice: null’altro che la mia esperienza personale. Quelle che presento sono letture, incontri artistici mediati dalle cose che ho studiato nel mio percorso umano e professionale e che sono state per me come le isole di Ulisse: tutte hanno aggiunto qualcosa alla mia conoscenza. Non c’è tuttavia presunzione in questa modalità di approccio. Credo solo che nella verità della composizione il pubblico abbia magari un’occasione per riappassionarsi all’idea che l’arricchimento interiore e culturale attraverso la lettura, l’ascolto e la condivisione possa risultare divertente, entusiasmante, avvincente. L’incontro con i libri è sempre un incontro con più persone, è come avere tanti amici. E questo, a suo modo, è quanto accade anche a teatro”.

Il teatro è, senz’ombra di dubbio, il tuo grande amore. Quale importante spettacolo del passato avresti voluto vedere dal vivo e a quale partecipare in veste d’attore? “Avrei voluto assistere come spettatore a “L’albergo dei poveri” nell’edizione del Piccolo Teatro di Milano, ovvero il lavoro che credo aprì i battenti dello storico teatro al momento della sua fondazione. Proprio da lì è partito il primo, autentico e potente tentativo di costruire un rapporto vivo tra teatro e comunità di riferimento, tra attori e città. E questo con ottimi risultati. Avrei voluto partecipare in qualche modo alla genesi di quel miracolo, interrogarmi sulla mia identità di cittadino attraverso quella diretta esperienza teatrale. Come attore, invece, avrei desiderato lavorare nella indimenticabile, epica, rappresentazione dell’”Orlando Furioso” di Luca Ronconi, lui che fu davvero un maestro per me e per molti.”

Ti ho portato al passato e allora ti chiedo: se potessi riavvolgere il nastro del tempo cosa non rifaresti e su cosa, invece, insisteresti di più? “Io amo molto scrivere e questo da sempre, ma solo ora mi sono deciso a farlo con più convinzione. Intendo dire, scrivere tout court: tentativi narrativi, e non solo scrittura formalizzata per il teatro. Ecco, forse avrei risposto prima a questa necessità che sento dentro da così tanto tempo. Purtroppo io riconosco le mie vocazioni sempre un po’ tardivamente. Già mi era successo con la recitazione, avendo iniziato a calcare il palcoscenico attorno ai 19 anni. E poi mi interessa molto la regia, cosa a cui penso che mi dedicherò con passione in un futuro nemmeno troppo lontano. Cosa non rifarei? Sempre in termini professionali, ci sono delle collaborazioni che se potessi cancellerei addirittura dal mio curriculum, ma ovviamente non dirò quali. Chi mi segue e conosce davvero credo possa intuirlo”

Sempre riferendoci alla tua professione: c’è una persona a cui più di tutte senti di poter rivolgere già ora il tuo “grazie”? “Ce ne sono diverse in realtà. Sicuramente Claudio Longhi, per il lungo percorso artistico condiviso. Poi me stesso, per la testardaggine e la volontà. Oltre a noi, Marisa Fabbri, la mia insegnante in Accademia e Pino Passalacqua che è stata la persona che prima di tutti gli altri ha creduto in me. Mi ha voluto lui all’Accademia d’Arte Drammatica Silvio D’Amico. Era l’esaminatore della commissione e, rispetto ad altri, fu determinato a prendermi.”

Da pochi mesi sei diventato zio di un maschietto: se potessi consegnare ora un dono simbolico per il suo futuro, cosa sceglieresti? “Una barca. La terrei ancorata da qualche parte e, una volta cresciuto, gli direi dove si trova: è un dono materiale ma ha un forte valore simbolico per un bambino che crescerà più vicino alle montagne, in Abruzzo. Penso che potrei farlo davvero. Al momento giusto, saprà che in qualche porto c’è una barca tutta per lui che lo aspetta per attraversare qualunque mare.”

Ecco che ritorna il tema del viaggio e, idealmente, torniamo a Itaca. Possiamo dire che, dopotutto, la tua “Itaca” è il Teatro stesso? “Sicuramente è così. Il teatro è senz’altro il luogo dove ho bisogno di tornare per fare rifornimento psicologico e spirituale, per capire a che punto sono del mio percorso di uomo. Il recital di Itaca è, se vogliamo, un esercizio di messa in parabasi che ho costruito in un momento dove sentivo forte il bisogno di un rapporto più diretto e profondo con le persone; desideravo anche coniare una forma artistica mia più individuale e congeniale di relazione con il pubblico. Il teatro fino a quel momento era per me più legato al lavoro della compagnia in ERT. Anche questo un tipo di teatro privo di ogni quarta parete, connotato da una profonda relazione con lo spettatore, ma a me serviva misurarmi in altro modo, sentivo l’urgenza di fare anche esperienze artistiche più personali.”

Un’ultima domanda un po’ scomoda per te, o forse liberatoria. Penso alle tante interviste che hai rilasciato in questi anni e mi chiedo: c’è una domanda che nessun giornalista ti ha ancora fatto e a cui tu vorresti proprio rispondere? E’ un invito a fare una rivelazione, oppure a toglierti qualche sassolino… “Sì, ce n’è una in particolare. Nessuno mi ha mai chiesto se sono stato testimone diretto di molestie nei confronti di colleghe attrici. La risposta è che, purtroppo, lo sono stato. Sono uno dei pochi firmatari maschi dell’iniziativa di sensibilizzazione sul tema guidata da Jasmine Trinca, Alba Rohrwacher e altre attrici in difesa delle donne. Quando capitò, fui testimoni insieme ad altri colleghi: l’intenzione era quella di agire subito ma ci chiedevamo cosa potevamo fare, senza danneggiare le ragazze direttamente coinvolte. Allora fummo frenati proprio dalle persone vittime dei soprusi che temevano di non poter più lavorare. E’ una questione estremamente delicata, che merita la massima attenzione. Ora, dopo il caso Weinstein, abbiamo riparlato del grave accaduto con gli stessi amici di quel tempo. Non è facile affrontare la cosa, nemmeno quando non si è direttamente coinvolti. Credo che se ne possa venire fuori, provare a combattere certi comportamenti deprecabili, solo agendo consapevolmente come categoria, più che come singoli individui.”

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