La recensione

LETTERE A NOUR

DI: Rachid Benzine

CON: Franco Branciaroli e Marina Occhionero

E CON: trio Mothra ( Fabio Mina flauto, flauto contralto, duduk, elettronica; Marco Zanotti batteria preparata, percussioni, elettronica; Peppe Frana oud elettrico, godin multioud, elettronica)

REGIA: Giorgio Sangati

PRODUZIONE: Emilia Romagna Teatro Fondazione, Centro Teatrale Bresciano, Teatro De Gli Incamminati

Un dialogo immaginario, profondissimo e intimo, fra un padre e una figlia prende voce, corpo e anima, vivificando in scena le parole scritte di un loro scambio epistolare estremamente tenero e drammatico, poiché intriso non solo dell’affetto naturale che li lega, ma da punti di vista ideologici affini e contrapposti.

Lo spettacolo “Lettere a Nour”, tratto dall’omonimo romanzo di Rachid benzine, e presentato al Teatro Due quale ultimo appuntamento della stagione estiva, narra di una vicenda privata, ma apre a un tema sociale, estremamente attuale e problematico: il confronto-scontro fra chi sostiene un credo religioso (l’islamismo) liberale, aperto e illuminato, incarnato nella figura paterna affidata all’intenso Franco Branciaroli, e chi, invece, pur impregnandosi di quegli stessi valori, decide autonomamente di abbracciare la corrente più estrema (il fondamentalismo jihadista), come sceglie di fare la figlia ventenne, ben interpretata, pur con qualche lieve sbavatura nella tensione espressiva, dalla talentuosa Marina Occhionero.

La scena- ricondotta all’essenzialità di pareti grezze, cupe e spoglie, quasi a richiamare i bunker dei guerriglieri di Falluja, e attraversata da una luce calda ma fioca, perlopiù immessa dai due ingressi, frontale e laterale, che creano nelle entrate e uscite di Nour la minimale geometria di azione del lavoro- viene così abitata dalla caratura preziosa delle parole. Esse trafiggono l’interlocutore drammaturgico e quindi il pubblico, depositandosi con solennità fra pensieri, nodi emotivi e considerazioni per nulla semplici da sciogliere, perché attinenti non più al singolo contesto familiare ma a quello globale del nostro tempo.

E’ un lavoro imperniato sull’urgenza e l’importanza dell’ascolto, questo “Lettere a Nour”, e la trasposizione teatrale non poteva che costruirsi intelligentemente sulla sostanza e il significato della parola scritta, più che sul movimento e la performatività. Ecco perché, salvo i pochi spostamenti misurati, calibrati, quasi introflessi della giovane, nulla si muove in scena, se non la comunicazione verbale fra i due, sorretta emozionalmente da un tracciato sonoro bellissimo, eseguito dal vivo dal trio Mothra, ricco di richiami alla musicalità medio-orientale, ma con armonie distinguibili di un sound più occidentale.

Esiste, tuttavia, un fulcro materico (oltre che simbolico) della struttura dialogica così concepita e governata, ed è rappresentato dalla poltrona in cui sprofonda (senza mai alzarsi, se non nell’uscita finale) il padre, abbandonandosi in uno stato ora di afflizione, ora di angoscia, ora di rassegnazione, o più semplicemente di stanchezza e lucida introspezione, quasi desiderasse lasciarsi inghiottire dalla seduta o celarsi in essa. Attorno a questo nucleo composito di umanità, inazione, razionalismo e cultura- resa oggettivamente dalle pile di libri antistanti che si fanno colonne di quel trono ideale fondato su poesia, studio e preghiera ma destinato a crollare sotto il peso delle confessioni della figlia- vive e si racconta il contenuto delle loro lettere. Nell’espressione delle voci, nei diversi stati d’animo, nel cambio dei registri e dei toni, di questa immaginaria, sostanziata, compresenza fisica dei personaggi, si ridisegna e prende forma il corpo delle frasi scritte, tenute segrete, e qui svelate al mondo, quasi fosse un dono o un necessario viatico di speranza per il futuro. Sorta di agone in cui si dibattono e argomentano due diverse visioni dell’Islam, mantenendo, però, sempre acceso il tratto struggente, amorevole e delicato della relazione stretta, sanguigna e indissolubile fra genitore e figlia.

Nella diatriba religiosa si innestano i riferimenti affettivi che premono sul coinvolgimento diretto e sull’alto livello empatico del tessuto testuale: c’è il ricordo di una madre di cui entrambi soffrono l’assenza, c’è una figlia che non si sente più bambina e vuole scegliere la sua vita, c’è la gratitudine verso un padre che le ha insegnato ad essere libera e di cui lei, fuggendo da casa e affiliandosi all’estremismo jihadista, crede di realizzare un disatteso desiderio di azione; ma c’è per contro un genitore anziano che la implora di tornare poiché non le ha insegnato l’odio per gli altri, un uomo sfranto che ammette di perdere lucidità, di cercare ormai conforto solo nella lettura dei versetti coranici, e di essere vittima di violenze e soprusi per colpa delle sue idee liberali.

L’entusiasmo delle prime battute di lei, e così pure i colori sgargianti del suo abito, cedono presto il passo a una consapevolezza più dolorosa, veritiera e tragica, visivamente restituita dal tradizionale abito nero delle spose fondamentaliste, che abolisce l’appartenenza sociale e libera dallo sguardo degli uomini; mentre il dialogo col padre procede innescando sensazioni nuove, più sofferte, inquiete, tormentate. Resta, tuttavia, percepibile, palpabile, il sentimento d’amore tra loro, mai scalfito dalla partenza di lei, dalle divergenze ideologiche, dalle antitesi generazionali e intellettuali: “ti amo” è la frase che chiude ogni lettera, che firma ogni scambio, cancella le differenze, e davvero detronizza le certezze per far spazio alle domande, alle insicurezze, alle dobolezze (“A che serve il mio sapere se non riesco a strappare mia figlia dalle grinfie del male?” e “io ho bisogno di te, papà, per affrontare tutto questo”).

Abbandonare l’ego per ascoltare la voce del cuore: è l’invito reciproco che vorrebbero accogliere i due protagonisti e che risuona più che mai forte se riletto in una chiave universale di avvicinamento all’Altro, oltre l’odio “che è la collera dei vigliacchi”. Accettare anche l’imprevedibilità della vita e sorriderne (“Ridere è la più bella delle sovversioni. I tuoi amici non hanno umorismo e mancano di tenerezza, Nour”). E trovare la forza di reagire nel momento della massima tragedia (la giovane verrà costretta al sacrificio estremo), perché in una nuova nascita (la figlia di lei) può racchiudersi tutta la fragilità e la potenza della vita stessa, dove trovare le ragioni di una resilienza, di un’azione nuova orientata alla cura, alla benevolenza e non al rifiuto o alla crudeltà. Se il destino di un muro è il suo crollo, l’unica via di salvezza è il riconoscimento della sacralità della Vita, il solo principio in grado di superare limiti, restrizioni, distanze e obiezioni.

Tanti gli applausi al termine di un bel lavoro che ha avuto anche il merito di contare su una regia asciutta, precisa, sicura: quanto il testo originale in nuce presupponeva e richiedeva per la complessità degli argomenti toccati in pagina e restituiti, con la stessa verità storica, in scena.      

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