L'intervista

Le interviste a protagonisti della scena parmigiana (e non solo) a cura di Francesca Ferrari, giornalista e critico teatrale.

RAFFAELE ESPOSITO: "LA TRAGEDIA DEL VENDICATORE" PER RACCONTARE IL MALE FUORI E DENTRO DI NOI"

Attore intenso, generoso, di straordinaria potenza, ma anche regista attento e preciso (portano, ad esempio, la sua firma le produzioni Fondazione Teatro Due “La prigione”, dal testo di Kenneth Brown, andata in scena nella stagione 2016-2017 e la più recente “Il silenzio del mare”, sensibile trasposizione teatrale del celebre romanzo di Vercors).Tra gli artisti che da anni collaborano con il Teatro Due, il lodigiano di origini partenopee Raffaele Esposito è di certo uno dei più amati, applauditi e seguiti dal pubblico parmigiano, e non solo. Per godere del suo indiscusso talento occorre, tuttavia, considerare in questo periodo una breve trasferta in terra meneghina: l’attore è, infatti, tra gli interpreti de “La tragedia del vendicatore”, ultimo prestigioso lavoro del regista anglosassone Declan Donnellan, che dal 9 ottobre è in scena al Piccolo Teatro di Milano, produttore dello spettacolo, dove resterà fino al 16 novembre (per info e prenotazioni: www.piccoloteatro.org) e che ha già raccolto larghi consensi da parte della critica e ancor più del pubblico.

Dopo “Lehman Trilogy” di due anni fa, un nuovo ritorno per Lei al Piccolo Teatro dove si è diplomato e formato con il Maestro Luca Ronconi. Stavolta, però, è coinvolto in un lavoro dal respiro più internazionale grazie alla regia di Donnellan. Cosa significa per Lei? “E’ un’esperienza che non posso che definire elettrizzante! Ritornare al Piccolo è sempre emotivamente molto coinvolgente perché ritrovi le persone, rivivono i ricordi e riaffiorano le atmosfere degli anni in cui ho appreso di più di questo mestiere. Anche in questo lavoro ho ritrovato colleghi con cui ho condiviso il palcoscenico e l’insegnamento di Ronconi, come il bravo Fausto Cabra che qui ne “La tragedia del vendicatore” è il protagonista. In quanto ai maestri registi, posso dire di avere avuto il privilegio di passare da una assoluta eccellenza artistica a un’altra. E’ stato per me molto emozionante anche poter svolgere il primo periodo delle prove di questo lavoro al Centro Teatrale Santacristina vicino a Perugia, fortemente voluto da Ronconi. Insomma, nonostante fosse per me logico provare un iniziale senso di straniamento, perché l’approccio artistico di Donnellan è molto diverso da quello ronconiano, ho percepito, anche abitando quegli spazi, un senso di continuità profondo in quello che è il mio percorso umano e professionale.”

Tante le collaborazioni importanti che può vantare nel suo curriculum. Cosa ha aggiunto a lei come artista questa esperienza con uno dei più grandi registi teatrali del panorama attuale e in un gruppo di attori prevalentemente giovani? “Ho fatto nuove scoperte perché il modo di lavorare di Donnellan è completamente diverso, e questo proprio per l’imprinting anglosassone. Noi italiani, per tradizione, partiamo dallo studio approfondito del testo. Con Donnellan la genesi del lavoro di scena risiede nel disvelamento delle azioni e degli scambi fra i personaggi, nelle relazioni che possono innescarsi. E’ questo che si tende a vivificare per prima cosa: le relazioni che accadono tra esseri umani. Donnellan ha una incredibile conoscenza anche psicologica dell’Umano, e quello che chiede a un attore è di superare certi pudori, di poter accedere a un bagaglio di emozioni profonde, vere, reali: l’attore, con la sua umanità, è a disposizione della messinscena. Lavorare con lui è stato come esplorare altri territori, come addentrarsi più a fondo nella propria interiorità e in quella degli altri. Anche per la costruzione del mio personaggio, la riflessione compiuta con il regista è stata fondamentale. Per quanto riguarda il gruppo di colleghi, credo di rappresentare per alcuni di loro, anche giù dal palco, un po’ la figura del fratello maggiore, in virtù anche della mia esperienza professionale e personale. Molto stimolante è stato l’incontro con Massimiliano Speziani: anche lui, come me, un attore non giovanissimo con cui mi sono molto confrontato, condividendo l’idea della necessità professionale di spingersi sempre verso lidi ormai dimenticati da molti professionisti teatrali e verso una semplicità della messinscena costruita per il pubblico. Questo forse è uno dei più grandi pregi del Maestro Donnellan: cercare di raggiungere l’essenzialità, di togliere la polvere dal classico, in questo caso di Thomas Middleton da cui è tratto lo spettacolo, per cercare di rivitalizzarlo. Il pubblico oggi ha ancora voglia di andare a teatro ma predilige, io credo, uno spettacolo articolato, pur orchestrato con semplicità, grande ritmo e destrezza ”      

Quale personaggio interpreta in scena e su quali registri ha lavorato per costruirlo e restituirlo al meglio? “Come dicevo, l’incontro con Donnellan è stato molto positivo anche per questo. Ippolito, il personaggio che interpreto, fratello di Vindice (Fausto Cabra), inizialmente aveva una funzione più puramente scenica, come quella di Orazio in Amleto, per intenderci. Donnellan lo ha voluto costruire e strutturare maggiormente insieme a me e mi ha permesso di arrivare a toccare corde della mia personalità che non avevo ancora sfiorato: ha riscontrato in me delle caratteristiche che ho trasferito nel personaggio, così anche in scena incarno il fratello maggiore, protettivo, e preoccupato per Vindice, per la sua insana sete di vendetta. Ippolito cerca di aiutarlo, ma nella sua volontà di proteggerlo, arriva a compiere lui stesso delle azioni malefiche. In qualche modo è un personaggio tormentato, costantemente in bilico fra responsabilità e sensi di colpa; il tutto però restituito in modo ironico. In questo lavoro si fa grande leva sull’aspetto grottesco, al fine di mantenere e rinvigorire un’ambiguità sotterranea nei personaggi: delitti, malefatte e bizzarra ironia, un po’alla Quentin Tarantino, se vogliamo. L’effetto thrilling deriva da questa ambivalenza che è pericolosa, ma appunto divertente, in qualche modo eccitante”.

Tragedia del potere, inganni, vendette, torture, ma anche tanta ironia, seppur macabra, e una forte insistenza sulla sessualità. Cosa risponde a chi potrebbe vedere in questa lettura un esplicito strizzare l’occhio al gusto di una larga fetta del pubblico giovane? “Beh….un po’ ci auguriamo che sia così! Nel senso che vedere una platea di giovani a teatro è sempre un segnale incoraggiante. Ma non era nelle intenzioni del regista e della produzione lavorare con questa “premeditazione”. Nelle nostre premesse non c’è mai stata una volontà di ricercare il vasto consenso. Semplicemente Donnellan è come un cuoco sopraffino, consentitemi l’azzardata metafora, che sa dunque cucinare un ottimo piatto e che quindi più facilmente è capace di soddisfare i buongustai, a qualsiasi generazione questi appartengano. L’estrema vividezza del suo teatro, il ritmo serrato, la vitalità, l’essenza sempre effervescente, la temperatura alta della messinscena: tutto questo non può che portare il pubblico a teatro. A chi definisce “La tragedia del vendicatore” uno spettacolo pop risponderei che forse l’originale stesso era pop, forse era proprio nelle intenzioni dell’autore costruire qualcosa di pop, in senso “popular”, per il pubblico”.

Attingere al teatro elisabettiano per parlare all’Uomo di oggi e denunciarne i comportamenti più biechi. E’ solo il rovesciamento degli schemi classici attraverso l’ironia grottesca a disvelare le affinità sottese o in scena troviamo anche riferimenti più diretti al nostro tempo? “Da un punto di vista scenografico, siamo più di fronte a una decontestualizzazione: non vestiamo abiti dell’epoca elisabettiana, ma vogliamo piuttosto suggerire la libera fruizione da parte dello spettatore, quasi si fosse di fronte a una propagazione sul palco dell’umanità seduta in sala. I temi che emergono sono universali e sempre affini all’Uomo: il tema della maschera, del doppio, della diversità e della complessità dell’esistenza. La maschera del vendicatore scelta da Vindice, che mira a farsi accettare come cortigiano per mettere in atto i suoi piani, diventa emblema di punizione e morte. Il meccanismo del mascheramento non può avere effetti positivi, mai, e questa è una riflessione che ci riguarda tutti anche nella realtà, perché il Teatro presuppone sempre un atto politico e sociale. Qualcuno ha rilevato una certa superficialità d’indagine rispetto alle tematiche toccate: in verità, è proprio la banalità del male, l’impoverimento dei contenuti e delle motivazioni che spingono al compimento di certe azioni, anche le più efferate e oscene, su cui si vuole far riflettere. Lo spettacolo non offre interrogativi, né tantomeno risposte, ma vuole produrre in qualche modo un disagio, indurre a un rispecchiamento del vuoto pericoloso che ci circonda e che qui, anche se in modo grottesco e ironico, raccontiamo”.

Il vuoto che ci riconda… che il mondo stia purtroppo vivendo una escalation di odio e soprusi è davanti agli occhi di tutti. Il Teatro può, dunque, a suo modo rappresentare un riparo e un aiuto per esorcizzare anche attraverso una divertita parabola del Male? “Mi richiamo alla mia collaborazione con Fondazione Teatro Due dove abbiamo, ad esempio, spesso trattato il tema del nazismo e dell’Olocausto. Ecco, quando l’essere umano dimentica di essere umano, il Teatro ci permette a volte di ricordarlo e di portarci a riflettere sulle nostre mancanze, sui nostri orrori. “La tragedia del vendicatore” racconta dinamiche che ci appartengono, che ci toccano tutti anche se indirettamente, che ci riguardano, perché il Male è dentro ognuno di noi, così come pure la scelta, o la stessa capacità di manipolare gli altri, che dobbiamo imparare a gestire con coscienza. Il Teatro ha il compito arduo di attivare queste forme di pensiero e di metterle in scena nel modo più crudo possibile, senza edulcorare nulla, perché solo così, io credo, la Verità può davvero raggiungerci e smuoverci dalle nostre finte sicurezze”.

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