L'intervista

Le interviste a protagonisti della scena parmigiana (e non solo) a cura di Francesca Ferrari, giornalista e critico teatrale.

DAVIDE GAGLIARDINI: "IN LUNGS VA IN SCENA LA DIGNITà DELL' ESSERE UMANO"

Classe 1986, ma con già un nutrito curriculum d’attore, non solo teatrale, alle spalle. Davide Gagliardini è uno degli interpreti più giovani, anagraficamente parlando,nell’ensemble di Fondazione Teatro Due, ma di certo non manca di una impronta recitativa riconoscibile e personalissima, caratterizzata da freschezza espressiva, naturale spontaneità unita a precisione tecnica e onestà comunicativa; peculiarità artistiche che lo hanno fatto giustamente apprezzare dal pubblico in molte produzioni di successo andate in scena al Due (citiamo tra queste le recenti “Littoral” per la regia di Vincenzo Picone e “Girotondo Kabarett” di Walter Le Moli) e su cui il regista Massimiliano Farau ha meritatamente puntato nello spettacolo “Lungs” di Duncan Macmillan, che torna dal 2 al 10 novembre e che vede appunto Gagliardini quale protagonista, insieme a Sara Putignano.

“Lungs” è un titolo che suggerisce molto sia dei contenuti che dello sviluppo della messinscena. Vale a dire? “I polmoni c’entrano in senso fisico e figurato. Si fa riferimento a loro in quanto, malgrado ciò che comunemente si pensa, è l’organo produttore delle emozioni: è, infatti, dal respiro che nasce tutto, è attraverso di esso che si regola la percezione degli stati d’animo stimolati dall’esterno. E’, in pratica, il nostro cervello atavico, quello più profondamente collegato alla parte emozionale. In secondo luogo, il titolo richiama uno dei temi più ricorrenti nello spettacolo, quello legato all’ecologia, con i due protagonisti che si domandano in quale direzione stia andando questo nostro pianeta. Si parla della necessità di piantare alberi, dell’impatto ambientale che hanno le nostre abitudini ogni giorno, ci si interroga su cosa significa mettere al mondo un figlio in una realtà come la nostra. I personaggi in scena sono semplicemente due giovani, un uomo e una donna senza nome proprio, che si caricano così di una valenza universale, diventando quasi archetipi della coppia contemporanea, e che nel dialogo sempre più fitto che intrecciano, devono imparare a governare il proprio respiro, le accelerazioni, i tempi. Quello che più mi ha stupito è scoprire la straordinaria abilità di un autore come Macmillan nel raccontare entrambi gli universi, quello maschile, a cui lui stesso appartiene, ma anche quello femminile, costruendo un incredibile ventaglio di emozioni in cui tutti noi possiamo ritrovarci. Questa è la grande forza del testo. E poi i polmoni evocano la memoria olfattiva, quella più antica. E’ come lavorare su un testo che è un grande ricordo, in forma dialogica, di una vita insieme, il racconto a due voci di una storia d’amore che si manifesta in uno spazio intimo privilegiato, quello teatrale, appunto.”

La pièce ha una costruzione generale semplice che però risulta complessa sul piano interpretativo. Puoi spiegarci perché? “Tutto è giocato sul ritmo serratissimo del dialogo a due. Alla prima lettura del testo, è stato un po’ paradossale e preoccupante accorgersi che si trattava di una vera e propria partitura musicale, più che di una drammaturgia come siamo soliti intenderla: basti pensare, ad esempio, che ci siamo trovati di fronte alla presenza grafica di slash che indicavano esattamente dove l’altro attore doveva inserire la battuta successiva. Iniziando a lavorarci sopra, è stato entusiasmante vedere come tutto si creava, al contrario, in modo molto naturale, come la sinergia tra me e Sara si stabiliva spontaneamente, e questo è stato possibile grazie alla sapienza dell’autore, ma anche grazie alla sensibilità di Farau che ci ha aiutato a scavare nelle pieghe umane dietro ogni singola battuta. Alla fine, abbiamo raggiunto la naturalezza necessaria in modo automatico, semplice, libero, al punto tale che, in alcuni brevi passaggi dove i due protagonisti parlano insieme, non si distinguono chiaramente le singole parole dell’uno o dell’altra, eppure si ha la comprensione esatta del senso di quanto viene detto”.

In un lavoro come questo, la sintonia, la perfetta sincronia con il partner di scena è fondamentale. Come avete lavorato tu e Sara Putignano? “Io e Sara abbiamo entrambi frequentato l’Accademia Silvio D’Amico e quindi già ci conoscevamo, avendo avuto la possibilità di lavorare in esperimenti laboratoriali e brevi collaborazioni. Con lei è stato facile entrare in empatia, grazie non solo a questa conoscenza pregressa, ma anche a quell’idea di teatro e recitazione molto simile che da sempre condividiamo, un’idea basata sulla concretezza, l’autenticità e la veridicità del dialogo di scena.”

La relazione di una giovane coppia moderna al centro dello spettacolo. Ma per aprire a quali ulteriori dilemmi ? “In primis alla naturale esigenza biologica di avere un figlio e al senso di responsabilità che ne deriva, oltre alle ansie legittime. La particolarità di queste due persone è che loro, a differenza di molti altri, si fanno delle domande. In un certo senso, questo può rappresentare un esempio per tutti. Porsi degli interrogativi, anche scomodi, esplorare dubbi e perplessità, confrontarsi e ragionare, sono sane abitudini che stiamo purtroppo perdendo, o pericolosamente negando. L’essenza del teatro, che è il dialogo stesso, è lì per ricordarcele.Vedere, e soprattutto ascoltare, due persone che parlano e discutono di argomenti che ci devono interessare, che hanno rispetto delle opinioni altrui, che non giudicano a priori, è un forte richiamo per ognuno. E’ uno stimolo per tutti a sviscerare certi temi e questioni importanti, serie, da cui nessuno può esimersi. La domanda se sia giusto o meno mettere al mondo un figlio offre così lo spunto per riflettere sul futuro, sul fatto di essere brave persone, sull’egoismo delle nostre esistenze, e sull’ambiente in cui viviamo. Ad andare in scena in questo spettacolo è la dignità dell’essere umano e la sua bellezza fatta di insicurezze, fragilità, incertezze, emozioni, e respiro, ovviamente. L’unica certezza che si ha, e che i due protagonisti conoscono, è quella di poter regalare amore.”

Tu sei coinvolto in prima persona anche in importanti progetti per le scuole, promossi da Teatro Due. Mi riferisco ad esempio allo spettacolo “Prof, cosa vuol dire essere vivi?”, che viene portato direttamente nelle classi di adolescenti. Puoi dirci qualcosa riguardo questo tuo impegno? Che impressione hai raccolto tra i giovanissimi in merito anche a quei grandi temi che vengono toccati in Lungs? “E’ un percorso del mio lavoro a cui tengo tantissimo. Ho avuto la fortuna d’inserirmi in un disegno progettuale che Teatro Due porta avanti da anni nelle scuole e che mi ha permesso di dare un senso ulteriore al mio mestiere di attore, riempiendolo di una funzione non solo performativa, ma anche sociale e culturale. Mi occupo inoltre di laboratori teatrali pomeridiani nelle scuole, ma in questo spettacolo specifico che nasce da una idea di Vincenzo Picone e che io e Giulia Pizzimenti portiamo nelle classi, tutto è incredibilmente coinvolgente e umanamente arricchente sia per il pubblico di ragazzi, sia per noi. Si supera un radicato pregiudizio verso il teatro, ovvero che questo sia lontano dalla vita quotidiana. In realtà il teatro è uno specchio in cui lo spettatore anche oggi, dopo secoli, continua a riflettersi. Al termine di ogni replica, c’è sempre un momento d’incontro, un dibattito che aiuta i ragazzi ad approfondire e sprona noi artisti. Personalmente sono molto fiducioso nei confronti delle nuove generazioni, considerato che esse hanno la capacità di relazionarsi con molti più strumenti di conoscenza, rispetto a quelli di cui disponevamo noi solo pochi anni fa. Ma percepisco anche tanta insicurezza e, paradossalmente, credo che questa sia causata proprio dalla mancanza di una conoscenza empirica, sostituita da quella tecnologica e strumentale: si ha paura a guardarsi negli occhi, a riconoscersi nell’Altro, a toccarsi. E’ una paura indotta dall’esterno, da un mondo che appare sempre più ostile. Il disagio per un’ostilità percepita e generalizzata e il timore dell’Altro: sensazioni che emergono anche in Lungs.”

In quale tra le paure e le ansie affrontate dai due protagonisti di “Lungs” ti sei riconosciuto di più e perché? “Forse la paura di rimanere soli, di non avere la possibilità di donare parte di me a qualcun altro, che è un po’ quello che accade nella storia: la paura che tutto l’affanno speso nella costruzione di un rapporto d’amore e di una famiglia, vada perduto per motivi indipendenti dalla propria volontà. Riflettendo sul tema generale della paura, penso che sarebbe davvero interessante scrivere un progetto teatrale che potesse coinvolgere la cittadinanza su questo particolare argomento. Ne parliamo da tempo io e Vincenzo (Picone). Chissà, forse si riuscirà a realizzare proprio col gruppo di Teatro Due, un luogo di lavoro unico perché pieno di contenuti e stimoli per il pubblico, ma anche per gli artisti stessi”.

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