di e con Andrea Delfino, Paola Giannini, Leonardo Manzan
Regia: Leonardo Manzan
Produzione: Compagnia Bahamut
“Avete appena varcato il confine tra realtà e finzione”, suona così una delle prime battute del divertente, originalissimo e sagace spettacolo “It’s app to you” della compagnia Bahamut, andato in scena sabato 27 ottobre al Teatro del Cerchio e salutato da un’onda di applausi entusiastici più che meritati.
Verità e virtualità. Si gioca tutto sul confronto-scontro tra queste due dimensioni rappresentative di una contemporaneità che ben conosciamo (e sempre di più temiamo), quella della iperconnessione alla rete e della pericolosa spersonalizzazione che deriva dall’abuso di nickname o finte identità calate in una “second life” tutta telematica e disumanizzata. Certo la soglia evocata all’inizio non può non alludere anche alla volontà di oltrepassare consapevolmente la realtà quotidiana per aprirsi alla visione teatrale. Si suggerisce sottilmente di stare in guardia -qui, nella sala del teatro, significa anche “sospendere l’incredulità”, per dirla alla Coleridge, che è forza e fondamento del gioco teatrale- ma chi lo fa non è una voce fuori campo, bensì un personaggio a tutto tondo, Algoritmo, sorta di deejay/regista/deus ex machina che da una consolle ai lati della scena dà avvio alla sua opera esemplare, ma non unica: condurre gli spettatori a disegnare il proprio autoritratto su un foglio consegnato all’entrata (e nei pochi minuti concessi non si può che rappresentare uno schizzo di sé, beffardamente), avvisare che il nostro vicino di seduta “non esiste”, preparare un archivio dati, allenarsi con scioglilingua, effettuare una scansione e attivare colei che sulla scena assumerà il piano delle azioni fisiche e del movimento.
Siamo a tutti gli effetti dentro a un videogioco, di fronte alla incarnazione, alla restituzione in forma umana, di un meccanismo che è, sì interattivo, ma non nel senso che siamo soliti intendere: c’è 46, una ragazza in carne ed ossa, sorta di novella Lara Croft, che deve trovare il suo assassino e noi pubblico (o meglio, uno di noi) deve aiutarla in questa missione, scopo del gioco (e dunque della nostra stessa presenza). E’ proprio qui che l’”applicazione” teatrale, congegnata a regola d’arte, affina la strategia della sorpresa, del coinvolgimento diretto e, di conseguenza, del fine ragionamento di pensiero sottostante: pare che uno spettatore sia arrivato tardi, prende posto, parla a voce alta, ma non è un disturbatore. E’ un solipsista, dice lui, sicuro che tutto quello che stiamo condividendo in quel dato hic et nunc sia stato scritto nella sua mente, da lui immaginato, pensato, voluto. E’ lui il prescelto, Luigi, e a lui viene assegnato il numero 47 (morto che parla?), controparte e alter ego di 46, o forse dello stesso Algoritmo che sempre più ricorda nelle intonazioni della sua esistenza verbale (la perfetta sincronia nel doppiaggio di 46 è davvero stupefacente), nella manifesta supponenza del suo partecipare fornendo indicazioni e perentorie decisioni, nella fredda e distaccata sicurezza del suo sapere senza spiegare, quell’ Hal 9000 del prezioso retaggio cinematografico di “2001: odissea nello spazio”.
E il povero 47 sembra davvero vivere una piccola odissea nello spazio scenico, condotto suo malgrado ai limiti dell’impossibile, di un non-sense che acquisisce forma quasi parossistica, proprio per quel registro ironico diffuso e straniato, scomposto e disorientante, eppure capace di ricondurre infine a un lavoro complessivo incredibilmente icastico, dove la struttura drammaturgica d’insieme e così pure la definizione dei personaggi appare studiata e combinata senza “errori di sistema”. Quel gioco apparentemente inutile, senza principio, né fine, è “app to you”: non è una mera applicazione ma la presa di consapevolezza che risiede in quell’assonanza sottratta argutamente all’espressione inglese “up to you”, sta a te.
Tocca, dunque, a noi metterci in gioco, proprio come il personaggio di 47, e compiere uno sforzo per comprendere, comunicare, entrare in contatto con l’Altro, per superare i limiti in cui spesso ci chiudiamo, ma così pure per toglierci di dosso quella superbia che impedisce il vero progresso. E’ su quella necessità di dialogo, di interazione reale e non “programmata”, invocata da 47 nei confronti della ragazza a cui, nel frattempo, lui stesso ha regalato la dignità di un nome e di una identità, Treccia, che si costruisce la parte significante, più profondamente filosofica e non di intrattenimento, tra i diversi passaggi e scambi. Così, se nei momenti di “loading” delle singole fasi di gioco si riflette, attraverso argomentazioni ponderate e lucide, sulla censura di alcune parole o sulla pronuncia delle lettere dell’alfabeto, nelle metafore di Algoritmo legate alla caffeina si legge della follia dell’epoca attuale (“La caffeina è il motore del mondo e i chicchi di caffè sono come uomini, che una volta macinati diventano polvere e non distingui più i chicchi grandi da quelli piccoli”) e dell’impossibilità di sottrarsi a l’unica regola riconosciuta e universale, “Tu sarai ciò che io sono, io sarò ciò che tu sei”. Il gioco non può che essere eterno e la sua traduzione in scena va così temporaneamente a chiudersi in un rovesciamento degli elementi in campo, delle forze chiamate in causa, delle prospettive di sguardo accolte, con la ricerca del numero successivo, 48.
Non sorprende davvero che questo spettacolo abbia vinto il Premio In-box 2018: la vivacità, l’entusiasmo, la precisione (menzione speciale all’agilissima ed espressiva Paola Giannini nel ruolo di 46), l’originalità dell’intuizione, la perspicacia, si sono respirate a pieni polmoni, incidendo, col sorriso, nella levità della realizzazione, pensieri importanti e salienti del nostro vivere moderno.