Nel recensire il libro “Il Maestro e Margherita” Eugenio Montale lo definì un “miracolo che ognuno deve salutare con commozione”. Il romanzo di Bulgakov è a ragion veduta un capolavoro assoluto della letteratura del ‘900 (meglio dire della letteratura tout court), opera potente, magica, febbrile, perturbante, pregna di sfumature, suggestioni, visioni. Essa è anche la nobilissima materia testuale da cui ha tratto ispirazione e forma lo spettacolo teatrale prodotto dal Teatro Stabile dell’Umbria, con protagonisti Francesco Bonomo (il maestro), Federica Rosellini (Margherita) e Michele Riondino nelle vesti luciferine di Woland (con loro in scena anche Giordano Agrusta, Carolina Balucani, Caterina Fiocchetti, Michele Nani, Alessandro Pezzali, Francesco Bolo Rossini, Diego Sepe, Oskar Winiarski). La trasposizione teatrale guidata con grande precisione dei dettagli dal regista Andrea Baracco e riscritta con meticolosa cura e scrupoloso rispetto dell’originale letterario dalla drammaturga Letizia Russo, sarà in scena lunedì 4 e martedì 5 febbraio, alle 21, al Teatro Asioli di Correggio, dopo aver riscosso, nelle tappe della sua tournée, il plauso unanime di critica e pubblico. Un intreccio complesso di storie e personalità quello raccontato nel libro, e dunque nello spettacolo, attraversato dalla figura diabolica e al tempo stesso attraente di Woland, a cui il bravo Michele Riondino- attore carismatico, poliedrico e preparato, capace di spaziare dal cinema d’autore alle fiction d’impronta più nazionalpopolare, e poi al teatro impegnato- regala una sua cifra personalissima, pur mantenenendosi nel solco dell’iconografia classica riferita al Diavolo.
Com’è dunque questo suo Woland teatrale? “Sono sicuramente partito dalla minuziosa descrizione che Bulgakov fa di questo personaggio nel romanzo: egli lo presenta come un nobile decaduto, affabile nella dialettica, di fine retorica, gentile nei modi, ma estremamente ambiguo, misterioso. Da lì ho poi imboccato una mia strada interpretativa, cercando di rispettare quello che nell’immaginario collettivo ruota attorno alla figura del Diavolo. Ho lavorato dunque tanto sull’uso del corpo e della voce, caricando il tutto di una ironia accesa, sfacciata. Il mio Woland ha un sorriso smagliante che lo rende simile a un joker satanico, ammaliante e ipnotico”
Come siete riusciti a ridurre a una struttura drammaturgica la molteplicità di linee narrative insita nel libro? “Devo dire che il lavoro compiuto dalla drammaturga Letizia Russo è stato in questo davvero straordinario: ha dovuto operare delle scelte, tagliare anche alcune parti importanti, ma il risultato finale è incredibilmente rispettoso della storia originale. Il pubblico che ha letto il libro e poi visto lo spettacolo ha molto apprezzato questa riscrittura e in tanti ci hanno ringraziato proprio per questo, di non aver tradito la bellezza del romanzo e, quindi, di conseguenza nemmeno la memoria del lettore più intransigente”
Amore, potere, verità, giustizia sono tra i temi portanti del romanzo di Bulgakov. Lo spettacolo su quali interrogativi preme maggiormente? “Cerca di mantenersi equidistante da tutti i temi, e al tempo stesso di toccarli in ugual misura: così, ritroviamo la questione dell’ateismo, che era urgente al tempo di Bulgakov, mescolata alla storia d’amore fra il maestro e Margherita, e senza rinnegare quella sorta di corsa agli ostacoli sul piano narrativo che è forza del libro. Sostanzialmente non c’è una volontà precisa di rendere contemporaneo quel testo già così illuminato. La storia è quella e non può essere diversamente, ma in questo lavoro teatrale c’è una rielaborazione di pensiero rispetto al tema dell’esistenza dell’Uomo e al mistero nel suo rapporto con il divino”
Ma allora quanto dell’orizzonte filosofico faustiano e quanto, invece, del peso politico, storico e sociale contestualizzante l’opera dell’autore si respira in questa trasposizione teatrale? “Le parole del romanzo hanno un valore di universalità indiscutibile, poiché portano, attraverso le vicende dei personaggi, a interrogarci su questioni attinenti la vita stessa. Ma proprio perché non si intende in alcun modo incrinare la bellezza dell’opera, la sua potenza, ecco che non è possibile esimersi da quelli che sono i riferimenti alla vita di Bulgakov stesso, e che sono evidenti nella storia del maestro, riconoscendovi quindi anche quegli aspetti autobiografici più personali e dolorosi, come la pena di vedersi ingiustamente vittima di una lunga censura”
Dal punto di vista della messinscena qual è l’atmosfera, l’ambientazione in cui muovono i personaggi ? “A dispetto del romanzo, qui a teatro è difficile dare l’idea dei diversi scenari in cui si svolgono i passaggi della storia. La scelta scenografica ha quindi risposto a questa esigenza: si è costruito uno spazio che diventa tutto, che può ricordare la descrizione dell’appartamento del maestro, ma che è anche buio, infinito dove non si percepisce il limite, dove i confini vengono scardinati e ogni cosa può accadere. Piccole porte, botole, scomparse, comparse creano l’illusione di una infinità di luoghi, dilatano la scena e aprono così a quelle mille suggestioni contenute nel libro”
A suo modo portatore della verità della dialettica, Woland puniva la protervia degli intellettuali supponenti. Oggigiorno chi andrebbe invece a colpire, secondo lei? “Il romanzo mette al centro un paradosso straordinario: l’antidivino è chiamato a prendere le difese del divino stesso, a cercare di certificare la sua esistenza in un contesto storico e culturale molto particolare, quello della Russia degli anni 30. Oggi se devo immaginare un paradosso analogo forse penserei alla discesa in terra del divino stesso, la cui presenza verrebbe però a imporre a noi tutti una presa di coscienza diversa, e magari a suon di ceffoni proprio verso chi lo evoca a sproposito”
Dicevamo prima della lunga censura che subì il libro. Da artista come sente e vive, invece, la delicata questione della libertà d’espressione nel tempo di oggi? “Non so se è tutto frutto di una strategia consapevole da parte di qualche rete di poteri molto al di sopra di noi, ma credo che attraverso i social, e soprattutto nel loro abuso, ormai tutti crediamo di essere diventati esperti di ogni argomento; pensiamo, insomma, di venire veramente informati su temi e questioni importanti, anche su quello che è lontano dalla nostra reale capacità di comprensione e conoscenza. Ognuno si crede capace di disquisire su qualsiasi cosa. In realtà questa incontrollata condivisione di notizie ha prodotto solo un generale appiattimento culturale, per dirla alla Umberto Eco, e ha aumentato in modo allarmante l’incapacità di riconoscere e distinguere la verità, anche dell’arte, da quello che è, invece, puro inganno. Io penso che questa sia la suprema e più moderna forma di censura: la libertà che ognuno di noi si arroga di poter giudicare, condannare, allontanare senza prima realmente sapere, nè conoscere. Mentre dovremmo appellarci noi stessi, da soli, a una forma di autocensura salvifica: ammettere i nostri limiti e le nostre fragilità. Anche questo se vogliamo è un sillogismo dialettico degno di Woland…”
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