L'intervista

Le interviste a protagonisti della scena parmigiana (e non solo) a cura di Francesca Ferrari, giornalista e critico teatrale.

CLAUDIO LONGHI: "DEL VALORE POLITICO E MAIEUTICO NE "LA CLASSE OPERAIA"

Quella di Claudio Longhi, uno tra i più stimati registi contemporanei, nonché Direttore di Emilia Romagna Teatro Fondazione, è una visione teatrale che s’ispira chiaramente alle nozioni sceniche, intellettuali ed artistiche apprese dal suo Maestro, Luca Ronconi, ma che muove prima ancora nel solco di una tradizione brechtiana caratterizzata da una viva e lucida tensione maieutica. Un teatro della riflessione, della coscienza, dell’interrogativo e della responsabilità (per dirla alla Roland Barthes) che incita lo spettatore a ragionare sul proprio presente, attraverso un approccio quasi dialettico con la Storia e il passato, e che nell’interrogazione stessa alimenta la sua parte attiva, se vogliamo più rivoluzionaria. L’impronta del teatro di Brecht è forte anche nell’ultimo applauditissimo spettacolo da lui diretto, La Classe Operaia va in Paradiso, liberamente tratto dall’omonimo film di Elio Petri, in scena mercoledì 15 e giovedì 16 maggio alle 20.30 a Teatro Due, ultime due tappe di una tournée davvero trionfale, se consideriamo l’enorme affluenza di pubblico registrata fino ad oggi, la straordinaria accoglienza ricevuta dalla critica e i numerosi premi ottenuti. È un lavoro ambizioso questo, costruito con intelligenza e cura del dettaglio, in virtù anche della drammaturgia scritta da Paolo di Paolo, attento e rispettoso dell’autorevole matrice cinematografica, e affidato all’alto livello qualitativo sia dello staff tecnico che di quello attorale. Sul palco, infatti, spicca una rosa di interpreti d’ineccepibile bravura, quali Donatella Allegro, Nicola Bortolotti, Michele Dell’Utri, Simone Francia, Diana Manea, Eugenio Papalia, Franca Penone, Simone Tangolo, il musicista Filippo Zattini, e Lino Guanciale, che proprio nel ruolo del protagonista Lulù Massa (nel film spettò all’insuperabile Gianmaria Volontè) ha conquistato il Premio Ubu 2018 come Miglior Attore Protagonista. Al centro dello spettacolo il tema del lavoro declinato all’attualità, attraverso “una operazione condotta per travestimento” che non si allontana dunque, né tradisce, le originali dinamiche cinematografiche ambientate negli anni ’70, ma anzi ne va ad approfondire il senso e l’urgenza, raccontando delle contraddizioni, della fine delle illusioni e delle utopie, dell’alienazione a cui ha portato la moderna società capitalistica, e non da ultimo della perdita della coscienza di classe.

Al termine del secondo anno di programmazione (lo spettacolo debuttò al Teatro Storchi di Modena nel gennaio del 2018, ndr) si può ben fare un piccolo bilancio. Qual è il dato più significativo raggiunto da “La Classe Operaia va in Paradiso” che sente di poter considerare e sottolineare? “Senz’altro la risposta del pubblico. E non mi riferisco tanto al fatto che lo spettacolo sia piaciuto molto e che gli spettatori siano accorsi così numerosi a vederlo, anche se indubbiamente questo mi fa piacere, ma penso piuttosto al grado di ricezione delle questioni e delle considerazioni che questo spettacolo solleva. Nel quadro di un generale riscontro positivo della qualità estetica del lavoro, mi ha profondamente colpito notare la particolare attenzione del pubblico al tema del lavoro, constatare che questo è davvero un problema caldo e spinoso, al centro delle preoccupazioni degli italiani, e che dunque qualsiasi strategia o modalità adottata per parlarne e dibatterne, è senza dubbio utile ed efficace. Ritengo, del resto, che la forza di uno spettacolo debba essere misurata anche in rapporto a questi aspetti, ovvero alla sua utilitità ed efficacia, oltre che al proprio valore artistico. Altro dato significativo è stata la risposta così accesa da parte dei giovani, e questo non era assolutamente scontato. Durante la lavorazione, ci siamo chiesti più volte se parlare di un mondo per loro così lontano, quasi remoto rispetto alla contemporaneità, come quello rappresentato nel film di Petri, potesse comunque suscitare un reale interesse. Ci ha stupiti il fatto che proprio i più giovani, che spesso dimostravano rifiuto o incomprensione nei confronti del film, abbiano tributato al lavoro teatrale un’accoglienza calorosa e vivace, registrata, ad esempio, negli incontri tenuti nelle scuole. I ragazzi hanno sentito che questo spettacolo parlava di loro, anche se partiva da un differente tempo storico”  

Il teatro vive e si nutre della sinergia che sa creare con il pubblico, spesso fotografando dalla scena le diverse reazioni, quel diverso sentire che si avverte di riflesso sul palco, come un respiro comune. Voi che impressioni avete raccolto in questi due anni? Che tipo di pubblico vi ha seguito? “Il termometro preciso rispetto alla composizione della platea è sicuramente più alla portata degli attori che vivono costantemente la scena e percepiscono le sensazioni dirette dello spettatore, ma anch’io da regista, pur non avendo potuto seguire per i vari impegni istituzionali le rappresentazioni in tutte le città, ho potuto raccogliere questa chiara impressione: c’è sempre stata una composizione di pubblico estremamente varia e trasversale. Nei teatri abbiamo trovato tanti giovani, toccati dall’esperienza e sensibili al problema dello sfruttamento nel mondo del lavoro, e poi molte persone per cui questo spettacolo è stato vissuto quasi come un momento di recherche proustiana, in cui recuperare la memoria degli anni che avevano vissuto sulla propria pelle, dunque operai o ex operai, sindacalisti, studenti, colletti bianchi che si sono riconosciuti nei personaggi in scena. Siamo stati seguiti anche da un pubblico insolito: mi è capitato infatti di ricevere riscontri e commenti orientati al dialogo, per via dei temi affrontati, anche da parte di militanti politici e sindacali, cosa che non accade di frequente a teatro. Ovviamente, un segno rilevante è arrivato anche dal pubblico di appassionati di teatro che hanno apprezzato soprattutto il livello attorale altissimo. Infine, perchè non mi nascondo dietro a un dito, la presenza di Lino Guanciale nel gruppo ha sicuramente aiutato a portare a teatro una parte di quel pubblico derivante principalmente dalla sua carriera cine-televisiva. Anche in questo caso è stato però interessante notare come, seppur inizialmente attratti dal nome noto, molti di loro siano poi rimasti coinvolti dal racconto e dalle riflessioni innescate sul tema portante del lavoro. Ecco, credo che questa spiccata caratteristica trasversale ed eterogenea del pubblico abbia giovato anche alla trattazione di un problema così ampio e di difficile risoluzione”      

I personaggi dello spettacolo sono gli stessi raccontati nel film, a partire proprio dal suo protagonista, l’operaio Lulù Massa. S’inserisce però nel lavoro teatrale un elemento simbolico forte, identificabile con la componente femminile: sia sonora, espressa nella voce fuori campo del prologo, sia interpretativa, tradotta nella scelta felice di affidare a una straordinaria Franca Penone il ruolo emblematico di Militina. A quali precise istanze si è inteso rispondere? “La radice di ciò non è tanto da ricercare nella volontà d’indagare a priori, nel sottotesto, anche un discorso sul femminile, bensì si lega a un altro aspetto, pur assolvendo, nel suo realizzarsi, anche a questa seconda idea. Il nocciolo di partenza è che nel film di Petri, come in molta sua cinematografia, si guarda alla realtà ma la forma, lo stile, è tutto fuorchè realistico. Il film ha delle accensioni particolari: banalmente potrebbe essere visto subito come una “commedia all’italiana”, con quella sorta di falsificazione, di trattazione grottesca dei profili e dei caratteri tipici del genere tradizionale, dall’altra parte questo apparente realismo spinge verso un espressionismo molto forte. I colori, i suoni, la sovraeccitazione nella recitazione, fanno sì che il film prenda virate e impennate iperreralistiche. Da qui sono partito, puntando a un lavoro teatrale di marca apertamente brechtiana, dove la realtà venisse in un certo senso esasperata anche nel gioco metateatrale, con la presenza in scena del regista e dello sceneggiatore. Dentro a questa esplosione del reale, volevo fosse riconoscibile una maschera: la figura emblematica di Militina andava esplicitamente presentata “fuori ruolo”, per quello che già all’origine significava, ovvero depositaria di una saggezza profonda, di una verità comune ed universale. Militina è il problema stesso che parla e costringe alla riflessione più difficile. Era giusto che a incarnarlo fosse una donna, per togliere ogni possibile ambiguità, ogni fraintendimento sul fatto che non si trattasse di un personaggio identificabile, con una storia individuale, ma che si presentasse appunto come una funzione, un concetto, una maschera tragica. Da qui la scelta di operare questa forzatura, e compierla, traendo gli spunti narrativi da un film dove le donne obiettivamente non vengono esaltate in senso positivo, che quello sguardo sul femminile venisse bilanciato da un’accensione nuova e altra proprio rispetto a Militina, mi sembrava corretto e doveroso”

Ho pensato più volte a una contraddizione insita nello spettacolo, e cioè al fatto che fosse proprio il bravo Lino Guanciale, ormai volto televisivo noto, ad incarnare quell’alienazione alla società dei consumi che lui stesso ha considerato come ispiratrice dell’idea teatrale, associandola alla scena del film in cui il Massa resta imbambolato dalla luce azzurrina del televisore. Lo specchio deformante del Teatro sembra innescare qui un cortocircuito. È così? “Assolutamente sì. Non abbiamo mai fatto mistero del fatto che la prima idea di questa trasposizione teatrale sia stata proprio di Lino che me la propose mentre discutevo con lui di un possibile titolo che rientrasse in un più ampio discorso di riflessione sul teatro come specchio della contemporaneità. Lui pensò subito a La Classe Operaia. La contraddizione ovviamente c’è e così pure il cortocircuito, perché se è vero che il tema del lavoro, degli operai, della lotta di classe, delle prospettive rivoluzionarie, della ideologia marxista, sono tratti salienti del lavoro, la prima molla a far scattare l’idea in Lino non fu tanto il pensiero della fabbrica, o il piacere di confrontarsi con il grandissimo Volontè, ma piuttosto il ricordo vivo di quelle sequenze del film che fotografano le famiglie raccolte davanti al televisore, mentre una luce bluastra rifrange su di loro quasi ipnotizzandoli. Forse in pochi lo avranno notato, ma anche i costumi di scena, ideati dal bravo Gianluca Sbicca, che riproducono fedelmente gli abiti del film, sono stati tutti virati verso la tonalità dell’azzurro, nell’idea di richiamarsi appunto a quella luce della tv che tutto inonda e tutto appiattisce. E poi nello spettacolo c’è una battuta molto potente che fa volutamente esplodere quel cortocircuito di cui dicevamo: è il momento in cui Lino/Lulù viene accusato dai compagni di fabbrica di essere un ruffiano dei padroni e lui, esasperato, inizia a leccare lo schermo di un televisore al centro della scena, gridando “Il culo del capitale!” Non voglio addentrami nei meandri della psicoanalisi che non mi competono, ma poichè questo passaggio non è stato imposto, ed è, invece, il risultato di un’azione voluta e ragionata da Lino stesso, credo che in fondo appartenga anche a una sua personale presa di consapevolezza e coscienza, a un suo relazionarsi rispetto alle tante diverse sfaccettature del proprio Essere”

La natura del Teatro è sempre politica, ma quanto è importante che oggi soprattutto, nei confronti delle giovani generazioni sempre più indifferenti, o deluse e lontane dalle forme di partecipazione, il Teatro si faccia veicolo di questioni sociali urgenti, e dunque si mantenga luogo vivo in cui affrontare, pur attraverso il linguaggio dell’arte, quella che è la vis politica? “Ha detto bene lei: da un certo punto di vista è una falsa questione perché il Teatro è sempre politico, nel senso che ciò è parte del suo dna. È il fatto stesso che il Teatro accada che dà una rilevanza poltica all’azione teatrale. Ogni tipo di teatro è un gesto politico, anche la più pura forma d’intrattenimento. Dal mio punto di vista, e ribadisco che è un mio parere, l’orizzonte politico costituisce l’essenza del Teatro anche nella misura in cui il Teatro lo voglia negare; persino il Teatro che si dà come apolitico, è di per sé un gesto politico. Detto ciò, l’acquisizione di una maggiore consapevolezza di questo fatto, di questo intrinseco carattere politico, credo sia sempre più importante. Più ce ne rendiamo conto e meglio è, perché è nella presa di coscienza che matura una scelta, la decisione di andare in una direzione oppure in un’altra. Posto che l’oggetto teatrale possiede questa rilevanza politica sempre, se lo so, so cosa sto facendo nel momento in cui lo vivo e lo fruisco. Divento responsabile dei miei pensieri e, dunque, delle mie posizioni”    

Pensando al grande successo di questo spettacolo, ritiene che la ricodificazione teatrale attuata partendo da un soggetto cinematografico sia una forma di traduzione scenica interessante, da percorrere con maggiore frequenza anche in futuro? “Se c’è una cosa che ho appreso alla scuola di Luca Ronconi è l’onnifagia, nel senso che, come spesso il Maestro ci ripeteva, “non esiste materiale che non possa diventare teatrale”. L’importante è, però, determinare il dispositivo di comunicazione adatto a tradurlo in questa forma. Anche per me non esiste materiale che non possa essere considerato “potenzialmente teatrabile”. La sceneggiatura cinematografica ha la stessa patente di legittimità dell’elenco del telefono, del saggio economico, del dialogo filosofico, di una scrittura, nell’ottica di un lavoro che intende forzare i confini per allargare così l’orizzonte di riflessione. Dentro questa selva di possibilità, credo che il confronto con la sceneggiatura cinematografica ponga sfide importanti, e questo nella misura in cui il cinema ha indiscutibilmente riconsiderato dei modi percettivi, ha contribuito a riscrivere il racconto sviluppandolo per immagini. Forse gran parte del cinema attuale tende ad essere meno agganciato alla realtà e per questo credo che oggi il Teatro possa guardare anche ad altre forme e modi di raccontare, al fine di esplorarli poi eventualmente sulla scena. Partire da lontano per vedere meglio e capire le cose che ci riguardano esprime, in fondo, l’assunto brechtiano per eccellenza: qui, in questo spettacolo, parliamo dell’Italia di oggi guardando a un’Italia che non c’è più, che in molti tuttavia ricordiamo e con cui il nostro tempo deve ancora fare i conti”

Il film di Petri non fu salutato con favore dalla critica. Lei ha mai temuto il giudizio dei critici per questo lavoro in particolare o per altri presentati in passato? “Dal mio punto di vista il confronto con i critici è necessario, anche quando una recensione può inizialmente apparire sgradita. I critici sono depositari di una competenza, di uno sguardo, di una capacità di decodifica, sono spettatori professionisti e il confronto con loro non può che essere prezioso. Ma anche il dialogo con il pubblico in generale è importante. Considero la critica come un punto di snodo fondamentale nella relazione con la platea, poiché crea una mediazione dei contenuti artistici, pone l’accento sulla consapevolezza della ricezione e sulla necessità di aprire un conseguente dibattito. Il confronto con la critica deve darsi nell’ambito di una dialogicità che appartiene al nostro vivere, che è fatta di tante verità e direzioni, e ognuno ha legittimamente diritto al proprio punto di vista, sia il critico come l’artista. E penso che questo sia un bene, perché il pensiero unico ucciderebbe l’Arte stessa: se tutti andassimo d’accordo, probabilmene ci fermeremmo. Ecco perché anche una voce fuori dal coro è importante, da un lato come dall’altro, sia questa una penna critica o l’espressione di una particolare ricerca artistica; è questa discordanza, questa diversità, che mette in moto la creatività. Il mio modo di stare dentro un dialogo così concepito è di essere il più possibile convinto della validità delle mie ragioni e, al tempo stesso, di essere il più possibile rispettoso della validità delle ragioni altrui”          

Lei ha per molto tempo collaborato con Teatro Due, una esperienza formativa determinante nella sua carriera di regista. Cosa significa ritornare su questo palco dopo tanti anni e, soprattutto, con uno spettacolo così complesso? “Mi emoziona tantissimo, non lo nego. Come regista ho lavorato in teatri a cui, per ragioni diverse, sono particolarmente affezionato, come ad esempio l’ Argentina, la Fenice, lo Storchi. In generale amo il teatro, proprio come spazio; trovo che sia uno dei luoghi più incredibili dove si possa vivere e trascorrere il proprio tempo. Anche il Teatro Due di Parma ha segnato un pezzo importante della mia vita, e oserei dire della nostra vita professionale, mia e di Lino: proprio qui, al Due, abbiamo iniziato a pensare insieme a un certo modo di fare teatro, ovvero a quella idea di teatro aperto al dialogo e alla partecipazione attiva dello spettatore che ci ha poi accompagnato nel corso degli anni e in cui ancora crediamo”

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