La recensione

DEL DOLORE E DELLA GIUSTIZIA NEL "PROMETEO INCATENATO"

DI: Eschilo

TRADUZIONE: Enzo Mandruzzato

CON: Federico Brugnone, Andrea Di Casa, Ilaria Falini, Deniz Özdoǧan, Ivan Zerbinati

COSTUMI: Emanuela Dall'Aglio

REGIA: Fulvio Pepe

PRODUZIONE: Fondazione Teatro Due

 

Lo aveva anticipato lo stesso regista Fulvio Pepe alla conferenza stampa di presentazione della rassegna estiva di Arena Shakespeare e ha mantenuto fede ai propositi dichiarati: riscoprire e restituire attraverso il “Prometeo Incatenato” tutta la forza tragica, sacra e al tempo stesso umanissima, di un mito fondativo della nostra cultura, in cui la comunità contemporanea possa “naturalmente” riconoscere i tratti universali della propria esistenza, riconvertendoli allo sguardo attuale. E il pubblico presente anche alla infuocata (un caldo davvero anomalo) e applauditissima replica del 27 giugno, dopo il grande successo del debutto nazionale, la sera precedente, lo ha recepito quasi prepotentemente, nel vigore, la fatica fisica e il sudore dei bravissimi interpreti, portando via con sè, alla fine, turbamento, inquietudine, commozione, per le tante suggestioni culturali, religiose e filosofiche, suscitate da una messinscena di sincera valenza icastica.

Tragedia del dolore e del supplizio, questa su cui ha insistito Pepe- con quel rigore drammaturgico e la lucidità registica che sono segno distintivo e pregiato dei suoi lavori- in cui con efficacia disarmante, al costrutto semantico e simbolico del mito antico sono andati a interpolarsi pensieri e rimandi al nostro tempo presente e al dramma di chi oggi, come Prometeo, resta “aggiogato a un destino atroce, inchiodato in un immane deserto, ai confini del mondo”.

Su una scena cupa, essenziale ma precisa nell’oggettivare, attraverso la sola parete rocciosa della rupe e il tronco secco a cui resta appeso Prometeo- al centro, fulcro del dialogo e dell’azione, con braccia tese a un trapezio e polsi incatenati- quella che è la spietatezza di un incommensurabile atto tirannico, si dilata l’oltraggio e la pena che consumano, senza mai estinguerla, la lotta del Titano che osò sfidare gli dei. Anche lui un dio, dunque, ma sofferente, punito da Zeus per aver tolto “ai mortali la preveggenza della morte e regalato loro il fuoco/ téchne, e la speranza”.

È una prospettiva escatologica che apre a una visione altra sulla figura prometeica qui rappresentata, da cui trapelano evidenti segni allegorici di matrice cristiana, sia nel richiamo all’iconografia classica, con il drappo rosso che copre i fianchi di Prometeo e con le tensioni muscolari e gli spasmi improvvisi del corpo che, appoggiando sui tratti sconnessi della rupe, portano ad assumere in più momenti la posa del Cristo in croce. Ma anche nella triade (o trinità) di attori chiamati alla difficile prova di interpretare Prometeo e sostenerne lo sforzo fisico, autentico, reale e non fittizio, il più a lungo possibile, ossia Ivan Zerbinati, Federico Brugnone, Andrea Di Casa, ognuno capace di donare con generosità e potenza perfomativa, una personale compiutezza espressiva al proprio passaggio, e la verità commovente del soccorso, di chi nell’abbraccio accoglie e sorregge il compagno sfinito, per farsi nuovo testimone dell’umano dolore.

Un dolore che riguarda tutti, a cui non si può non compartecipare emotivamente, e che tocca anche idealmente, come espanso dal sottostante, persistente rumore del vento, sfere diverse del vivere, della storia, dei luoghi, oltre i confini e i linguaggi tra popoli apparentemente lontani, ma affini in una comunanza di sentire. Così i canti, dalle preponderanti sonorità orientali e arcaiche, e i ricercati costumi (creati dalla brava Emanuela Dall'Aglio) riservati al coro, qui recitato dalla sempre splendente e raffinata Ilaria Falini, nelle vesti colorate, esotiche, tribali e al tempo stesso regali della fedele Oceanina, e poi da Oceano (affidato ancora a Di Casa), che ammonisce Prometeo sull’uso delle parole, e da Ermes (interpretato da Zerbinati), che apre a una riflessione acuta sul tema dell’odio e del nemico, creano vivide connessioni, intrecci di senso e contenuto, facilmente identificabili anche nella più tragica attualità, proprio perché calati in una dimensione solenne, dalla temporalità e spazialità sospese.

Ascoltando il grido di Prometeo “Per dare aiuto a chi soffriva ebbi la pena di essere abbandonato”, sale spontaneo il ricordo di chi eroicamente, nei nostri porti, ha sfidato una legge ingiusta per salvare delle vite, ricevendo in cambio offese e condanne. Ma anche questo ci dice il mito “L’ingegno è infinitamente più debole del destino” e ascoltare la miseria dei mortali non basta, se poi mancano i doni per cui lo stesso Prometeo ha lottato: pensiero e coscienza. Eppure subire l’odio dei propri nemici non è infamia. Ed è qui, in questa trama complessa di parole e riflessioni che entra in gioco la figura di Io, la vergine errabonda perseguitata dalla gelosia di Era e condannata a vagare senza sosta, tra terribili sofferenze fisiche. Una meravigliosa Deniz Ozdogan ha saputo regalare a questo non semplice personaggio una dignità, un coraggio, un eroismo davvero stupefacenti, richiamando a sé, sui suoi strazianti lamenti, sul trascinare a terra del corpo esausto, al lato della roccia prometeica, l’attenzione e la pietas collettiva.

E’ destinata a Io la profezia più grande, che la vedrà, dopo lungo e doloroso peregrinare, madre di una nuova umanità e di quel discendente che libererà Prometeo dalle catene, gettando in questo modo il seme di una inaspettata speranza, pur compromessa dall’assenza di catarsi. Quest’ultima, infatti, non può realizzarsi nel qui e ora, perché se la hybris di Prometeo ha scatenato l’ira di Zeus, la tracotanza che ha portato l’Uomo a uno stato di eterna sofferenza è a lui connaturata, legata al grado di consapevolezza dell’Essere e del trascorrere inesorabile del tempo, alla forza creativa e artistica, alla fiamma del talento, alla volontà di azione e invenzione. Tutti siamo un po’ come Prometeo, inchiodati al nostro ineluttabile destino ma combattivi, e un po’ come Io, con la fermezza di chi incede a stento, senza mai per questo arrendersi. Vediamo quello che soffriamo sulla nostra pelle e siamo testimoni del dolore degli altri. Ma allora “E’ giustizia questa?”, grida Prometeo per tre volte nel finale. Resta aperta la domanda più ardua e penosa, quella che ogni giorno ripetiamo a noi stessi, senza mai trovare risposta.      

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