L'intervista

Le interviste a protagonisti della scena parmigiana (e non solo) a cura di Francesca Ferrari, giornalista e critico teatrale.

CARLO ORLANDO: "LA MAGIA DI MISERY"

Ridurre per la scena un romanzo di straordinario successo, già tradotto in una versione cinematografica memorabile - che valse tra l’altro un Oscar alla protagonista femminile, Kathy Bates- è impresa ardimentosa, ma non impossibile se a salire sul palco è un terzetto di artisti di immensa levatura, quali Filippo Dini, Arianna Scommegna e Carlo Orlando. Saranno loro i protagonisti di “Misery” di William Goldman (tratto dal celebre romanzo di Stephen King), la nuova attesissima produzione di Fondazione Teatro Due (con Teatro Nazionale di Genova, Teatro Stabile di Torino-Teatro Nazionale) che debutterà in prima nazionale sabato 26 ottobre alle 20.30 (repliche fino al 3 novembre). Per Dini e Orlando un grande impegno non solo attorale, essendo rispettivamente chiamati a firmare la regia e a farne l'assistenza. Una collaborazione (e un’amicizia) la loro che ha avuto inizio negli anni della formazione comune al Teatro Stabile di Genova e che ha poi portato a tanti successi teatrali, spesso condivisi contemporaneamente sia sulla scena come interpreti, sia dal piano del contributo registico. Di questo importante e fecondo sodalizio e dei livelli di significato legati all’opera originale e ai suoi protagonisti, ne abbiamo parlato, alla luce della imminente prova, con Carlo Orlando, che in Misery vestirà i panni “scomodi” dello sceriffo.

Dicevamo, interprete ma anche assistente alla regia, firmata da Filippo Dini. La vostra è una collaborazione consolidata che si fonda su quali punti in comune e che si alimenta, se consideriamo costruttive anche le divergenze, di quali contrapposte visioni? “Con Filippo lavoriamo insieme dal 2002, anche se la mia prima esperienza di assistente alla regia è stata nel 2005, con Riccardo III. Da allora, sono state tante le occasioni per collaborare, e quei punti in comune si sono rafforzati col tempo, hanno messo radici profonde in un terreno di scambio nutrito da una stessa visione sul Teatro e sul ruolo dell’Attore. Da quest’ultima, soprattutto, entrambi non possiamo esimerci perché ci siamo conosciuti recitando insieme…certo, non è facile formalizzare un percorso artistico così lungo ed è anche la prima volta che lo faccio (sorride)…. però è utile, è sensato riflettere ed esprimere verbalmente queste nostre idee comuni, che proprio perché pienamente condivise non hanno mai condotto a veri disaccordi. Io parto dal presupposto, ed è così che ho sempre sentito il lavoro di assistente alla regia, sia con Filippo ma anche in alcuni lavori con Fulvio Pepe, che questo compito vada vissuto come un momento di accoglienza. L’assistente, per me, deve fare spazio, mettersi in ascolto, cercare di intuire e capire ciò che viene comunicato, e con quello interagire per poi dare un contributo. Il fatto di vivere il palco anche come attori ci ha inoltre messi d’accordo su un punto fondamentale: è nell’azione dell’attore in scena che l’evento teatrale accade. Questo non significa che le altre professionalità in gioco non contino. La bravura di Filippo è anche nel sapere ascoltare tutti, dagli scenografi, ai tecnici, ai costumisti. Non c’è mai l’imposizione di qualcosa dall’alto e questo modus operandi si erge su un pensiero che ci accomuna: il teatro è un’arte collettiva. È vero anche che di quell’arte collettiva l’attore diventa, in qualche modo, il portavoce, così come il regista deve poter esprimere un punto di vista su una drammaturgia. Alla base c’è tuttavia la consapevolezza che il teatro, anche nel momento in cui lo si fa e non solo quando lo si fruisce, sia fortemente aggregativo e inclusivo. Se poi in corso d’opera nascono opinioni diverse su alcuni passaggi della messinscena, si superano facilmente grazie a questi principi fondanti che ci uniscono”

Paul Sheldon, lo scrittore-artista. Annie Wilkes il demone della vocazione, incarnazione diabolica del fuoco dell’arte, ma anche rappresentazione esasperata e malata della figura del fan. Eppure in forma meno tragica c’è chi finisce davvero per confondere finzione e realtà, quando conquistato da una storia o da un personaggio. Che idea si è fatto sul tema del fandom, oggi così attuale anche a causa della virtual life? “Da ragazzo ero un fan dei Guns N’ Roses e mi ricordo che già allora ero molto colpito dal fatto che la parola fan derivasse da "fanatico", lo trovavo inquietante. Rapportato all’oggi è forse tutto ancora più preoccupante. Viviamo in un’epoca dove l’accesso alle informazioni private di chiunque e per qualunque cosa, è facile, incontrollato e dunque spaventoso. Potenzialmente ciascuno di noi può conoscere, o credere di conoscere, ogni aspetto della vita del proprio beniamino o idolo che dir si voglia. Ma quello a cui abbiamo accesso, attraverso questi canali, è vero o falso? E se fosse piuttosto il frutto di strumentalizzazioni? Sapere dove uno vive, addirittura interagire o pensare d’interagire con un personaggio famoso, crea un’illusione che però può portare a una degenerazione. Il rischio grande è che togliendo tutti i filtri si perda di vista la cosa più importante: la magia del mistero. Anche Annie mantiene una parvenza di stabilità emotiva finchè non scopre che Sheldon ha deciso di far morire la sua eroina. Quando la realtà irrompe, anche una realtà immaginata, seppur scritta in forma di romanzo, si spezza l’equilibrio. La tragedia deflagra quando i piani si confondono, sia di personale e pubblico, che di vero e finto. Ritornando all'oggi, credo che le persone, in primis gli artisti, dovrebbero custodire un po’ del mistero della vita e della forza creativa; lasciare immaginare un mondo dove si può accedere solo con la fantasia, preservare con pudore il processo della creazione. Penso, ad esempio, ai video dei backstage o ai documentari spesso realizzati per raccontare un film o uno spettacolo, e che svelano troppo di quello che forse sarebbe meglio difendere, per non perderne la magia, non contaminarla con la realtà”

Parlando, invece, del suo personaggio, lo sceriffo, possiamo dire che in qualche modo egli è la personificazione della parte razionale, dell’Io empirico, e dunque meno creativo, dell’essere umano? “Sicuramente la sua funzione, a un livello narrativo primario, sia nel romanzo che nel film, è di portare il racconto al mondo, fuori dalla casa, da quel microcosmo allucinatorio costruito da Annie e da Paul. Prende questa storia ed è colui che tiene un piede nella realtà, basandosi su dati oggettivi: è scomparso un noto scrittore e qualcuno lo sta cercando. Di contro alla creazione narrativa, e metanarrativa, è il rappresentante più vicino al reale, colui che incarna la legge di paese, anche se va detto che non ci sarà qui una precisa contestualizzazione spaziotemporale, pur riferendoci agli Stati Uniti. È insomma colui che fa domande concrete, ponderate dagli indizi e dai fatti. Sì, in questo è il personaggio che richiama la parte empirica, e nella nostra traduzione teatrale, forse lo è ancora di più. Rispetto allo sceriffo del fim, quello che tutti ci ricordiamo, io sarò un po’ meno accomodante. Se la funzione narrativa determina il carattere, possiamo dire che il mio sceriffo si relaziona alla scomparsa di Sheldon con fastidio e fatica. È un uomo di legge chiamato a gestire un problema che non è solito fronteggiare e oltretutto molto serio. Ecco perché non sarò un poliziotto buono, né dai modi troppo gentili”

Nel presentare il lavoro, Dini ha definito Misery come “Una grande opera sul potere magico della narrazione”. Cosa sente di poter aggiungere a questa dichiarazione, per lei che è, tra l’altro, il direttore artistico di Narramondo, associazione di teatro civile di narrazione? “La trama di Misery è nota ed è già di per sé un colpo di genio. Ciò che la rende veramente stupefacente, nell’atto della sua lettura e anche della messinscena, è questo: Annie si è innamorata del mito di Misery e non accetta la sua morte, al punto da obbligare Sheldon a far resuscitare il personaggio, ma attravero quell’atto, lo scrittore indaga nel suo intimo e scopre che lui per primo non ha completamente elaborato il lutto di Misery, sente di avere un conto in sospeso con lei. Nel prendere coscienza di questo, egli ritrova il suo talento narrativo, ed è una epifania per lui che era abituato a considerare quel genere di scrittura una paraletteratura d’intrattenimento. Dunque, attraverso la narrazione fa pace con il proprio Io più profondo, e riesce a salvarsi anche oggettivamente. È come Sherazade e lo è per Annie, per Misery e per se stesso, perchè alla fine comprende di essere “chiamato” alla narrazione. Il continuo rimando di significati alla forza della narrazione è sorprendente: la stessa Annie riattiva in Sheldon la vera scintilla creativa raccontandogli dei film a puntate che vedeva da bambina, e quindi la magia della narrazione non solo comunica il dramma di solitudine e malattia vissuto dalla donna, ma in maniera indiretta e subliminale restituisce allo scrittore il potere narrativo perduto. Ma non è finita, perché il genio di King riesce a fare altri salti mortali: Sheldon scopre la storia di Annie leggendo il libro con i ritagli di giornale che raccontano dei crimini commessi dalla donna, già conosciuta come Lady Dragon. Allo sguardo di Sheldon Annie si scopre dunque  persona e al tempo stesso personaggio, e ciò avviene sempre attraverso la forma della narrazione. E che dire della conclusione del romanzo? King scrive nell'ultima riga “ora la mia storia è raccontata”, quasi ad aprire una breccia autobiografica. Non nascondo che da ragazzo ho molto amato il romanzo, ma la grande abilità di questo autore mi è forse più chiara ora: quella magia della narrazione, che cerchiamo di rispettare anche nella messinscena, si ritrova solo nelle opere di chi, come lui, conosce perfettamente i meccanismi per evocarla”

Grandi romanzi o grandi film che si fanno materia teatrale, ma che non nascono per il teatro. Come si crea l’alchimia perfetta sulla scena, partendo da linguaggi espressivi così differenti? “In questo caso specifico, è grazie al meticoloso lavoro di riduzione fatto da Goldman. Quando quelle parole diventano, poi, il corpo di un attore, si crea spontaneamente, un po’ di default, un nuovo immaginario nel pubblico. Avviene perché s'indaga nel testo, perchè si cercano le macro tematiche che muovono personaggi indimenticabili, diventati dei piccoli grandi classici, dei topoi letterari. Nel fare proprie queste figure, l’attore comincia a infondergli anima, respiro e nuova vita. Se si ha a disposizione una storia potente come questa è impossibile che non sappia assestarsi sul palcoscenico, nella densità della dimensione teatrale”

Ripensando al valore simbolico della storia…si può fuggire dalla propria vocazione?“Non credo. Quale che sia la vocazione, essa ci trova, come del resto alla fine della storia accade a Sheldon. Questo succede perché non è detto che a chiamarci sia una vocazione all’arte, alla scienza, o alla filosofia. A volte ciò che definiamo “vocazione” è più semplicemente la realizzazione del nostro Essere, della nostra natura e della nostra reale attitudine. No, non si può scappare da lei, ma per fortuna quando questa ci trova, lo fa senza sfoderare un minaccioso coltello!”

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