Un Cechov come non lo si immagina. “Il giardino dei ciliegi” rappresenta una delle pietre miliari della scena teatrale dal primo Novecento ad oggi, ma la reinterpretazione che ne dà la giovane e fertile compagnia Kepler-452 fondata da Nicola Borghesi, Enrico Baraldi e Paola Aiello, lega la celebre storia “di finzione” alla realtà del nostro tempo, all’autenticità di una vicenda vissuta oggi da persone comuni. Un tratto quest’ultimo distintivo del lavoro della compagnia, da sempre orientata a intrecciare il mondo vero, esterno, a quello della scena, portando addirittura sul palco i protagonisti di quei racconti di vita. Così, questo “giardino dei ciliegi” reca un sottotitolo, “30 anni di felicità in comodato d’uso”, che già suggerisce la traccia di verità mutuata nella messinscena: la storia vera di Giuliano Bianchi e Annalisa Lenzi, della casa colonica concessa loro in comodato d’uso dal Comune di Bologna, in cui hanno a lungo abitato, accogliendo animali di ogni specie e persone disagiate, fino al giorno dello sfratto, consegnato per riservare quell’area alla realizzazione del parco tematico di FICO. A Nicola Borghesi, che firma la regia dello spettacolo, prodotto da ERT Emilia Romagna Teatro Fondazione- “pur essendo il frutto di un percorso collettivo”, ci tiene a sottolineare- oltre ad essere interprete, insieme alla coppia protagonista, a Tamara Balducci e Lodovico Guenzi (front man de Lo Stato Sociale), abbiamo chiesto come e perché di un parallelismo così ambizioso e rischioso con un classico del teatro.
Il mondo dell’aristocrazia russa raccontato da Cechov e la periferia bolognese, in particolare quella di Giuliano e Annalisa, la coppia protagonista dello spettacolo. Come ci siete arrivati? Quale lavoro di ricerca è stato condotto? “Il motore di tutto è stata la lettura del capolavoro di Cechov. Poi è arrivata l’idea di lavorare secondo quello che è il nostro pensiero da anni. La compagnia si occupa, infatti, di teatro partecipato dal 2015, è il nostro core business, per usare un termine imprenditoriale. Ma risponde, soprattutto, al nostro desiderio, alla precisa volontà artistica, di raccontare la vita vera attraverso le persone che la esperiscono sulla propria pelle. Questi esseri umani, profondamente, realmente calati nel presente, vengono chiamati a narrare sul palcoscenico. Attori non professionisti che interagiscono, dunque, con interpreti di mestiere. Questa è la nostra pratica consolidata, ma ci restava la voglia di portare in scena un classico. Abbiamo, dunque, cercato nella trama cechoviana un principio d'ingaggio, qualcosa che ci riportasse all’oggi, e abbiamo poi incontrato persone che in qualche modo rivelassero nella loro storia un legame alla celebre vicenda drammaturgica. Abbiamo così parlato con tante persone di Bologna che avevano subito uno sgombero imposto dalle autorità, finché ci siamo imbattuti nella storia di Giuliano e Annalisa e abbiamo deciso di focalizzarci su di loro”
Che giardino è quello evocato nel titolo? “E’materialmente una casa che stava in città, o meglio, in periferia di Bologna, nel quartiere Pilastro, in uno spazio verde, circondato da un campo di girasoli che viene spesso citato durante lo spettacolo. Ed è un giardino che ha una particolarità: è a forma degli esseri viventi, animali e persone, che lo hanno abitato, frequentato in una maniera davvero associativa, nel senso più compiuto di questo termine. Un posto che loro potevano vivere in piena sintonia con la propria identità. Ecco perché esso è diventato un luogo dell’anima, libero, risultato anche di tutti quegli attraversamenti che lo hanno caratterizzato. Un “troppo luogo” rispetto ad altri descritti come tali ma non altrettanto autentici”
Luoghi dell’anima e identità. Perdere uno comporta inevitabilmente quali conseguenze? “Per rispondere mi viene in aiuto un aforisma di Adorno che in “Dialettica dell’Illuminismo”, parlando dell’invecchiamento, dice che “è come se l’uomo fosse punito di avere abbandonato i sogni della propria giovinezza” e si diventa scoraggianti. Ci si può ribellare a tutto questo, ma ciò comporta altre conseguenze, ovvero la cristallizzazione della propria identità. Nel caso di Giuliano e Annalisa, lo sgombero non ha fatto loro perdere quella individualità perché hanno avuto il coraggio e la forza di portare il luogo sempre con loro: quella casa è diventata un giardino della memoria, ma è tornato a rifiorire anche fisicamente nella coltivazione delle piante, degli orti, che loro hanno saputo ricreare altrove”
Questo lavoro sembra voler esplorare un altro tema fondante, quello dell’incontro/scontro fra opposte visioni sulla vita e il mondo. E Giuliano e Annalisa rappresentano il trait d’union fra i diversi punti chiamati in causa. In che modo? “L’incrocio drammaturgico principale avviene fra il giardino dei ciliegi cechoviano e noi interpreti; poi si sviluppa un secondo piano drammaturgico che è la storia del nostro incontro con Giuliano e Annalisa. In scena non vengono raccontate le loro vicissitudini in maniera diacronica, ma come le abbiamo scoperte noi della compagnia e come le abbiamo vissute tra incontri, aneddoti, momenti particolari. La loro esperienza è talmente complessa, intendo umanamente, per tutto ciò che ha comportato che si sarebbe corso il rischio di realizzare un racconto apologetico. Abbiamo quindi deciso di narrare solo il nostro rapporto con loro e, parallelamente, la vicenda del capolavoro di Cechov”
La storia di una reale ingiustizia, di un abuso di potere documentato, che però viene veicolata attraverso un registro inaspettato. Quale? “Sì, in questo spettacolo, sembrerà incredibile dato il tema che si affronta, ma si ride anche. C’è molta ironia, sia per il fatto che Giuliano e Annalisa sono persone allegre, genuine, sia perché una materia già così triste per sé, la parabola umana successiva alla perdita della propria casa, trasformata in tragedia sarebbe stata insostenibile. L’unica strada percorribile per presentarla era affidarsi all’ironia”
E sul piano più prettamente registico come vi siete posti? Considerata anche la presenza in scena di due persone non abituate a relazionarsi con il pubblico… “Ci sono state difficoltà ma anche delle facilitazioni. La cosa più complessa è imparare a “maneggiare” materiale umano con estrema delicatezza, bisogna stare attenti a non rompere nulla, tenere sempre a mente la fragilità. Ma il tutto risulta più semplice quando si hanno dubbi, perché tornare alla fonte della storia è immediato: i protagonisti sono fisicamente lì, presenti, in scena con noi. E’ come se si potesse parlare direttamente col testo, è davvero materia viva che prende nuova forma sulla scena”
Giuliano e Annalisa ospitavano animali esotici, Rom, carcerati in borsa lavoro. Quel non-luogo assume quasi una dimensione biblica, primigenia, innocente, da piccolo giardino dell’Eden, o meglio di una simbolica Arca della Salvezza, in cui condivisione, accoglienza e convivenza erano le regole auree. Rispetto al tema in Cechov dell’ineluttabilità della Storia e dei cambiamenti sociali, quali altri livelli d’interpretazione apre il vostro lavoro? “Ecco, forse questa domanda mette in luce un nostro piccolo limite, rispetto alla trattazione della materia cechoviana; c’è una discrepanza, ma ne siamo consapevoli. Nel testo originale si guarda alla Storia come a qualcosa che procede, nel bene o nel male, emerge l’approccio disincantato dell’autore, sia sul passato che sul futuro. Nel nostro caso, la presenza dei personaggi reali ci fa propendere per uno dei due poli in gioco. Gli altri interpreti, in particolare Lodo Guenzi, mettono in campo la propria personale esperienza per compensare il secondo aspetto, per controbilanciare con quella parte di mondo che incarna la società attuale e i suoi strani, non sempre comprensibili, meccanismi economici. Tuttavia, nel nostro caso c’è una presa di posizione ed è a favore di quella vita libera vissuta da Giuliano e Annalisa. Del resto, ci piace pensare che anche in Cechov si percepisse il segnale di un’adesione alla Storia nel passaggio in cui si sente il suono d'una corda di violino che si spezza, descritto come triste e moribondo”
L’ultima domanda la riservo alla scelta del titolo “30 anni di felicità in comodato d’uso”. Sembra quasi sottolineare un’amara verità: la felicità parrebbe possibile solo come concessione da parte dell’autorità, di chi detiene il potere. Oppure esiste una felicità non transitoria? “È passato molto tempo da quando abbiamo deciso quel titolo. Personalmente penso che la felicità sia un concetto autoctono, anche se un artista scrittore vostro conterraneo, Paolo Nori, una volta mi disse che è un concetto americano. Io non lo so quanto possa durare e se esista veramente, per come ce la immaginiamo. Sicuramente i protagonisti di questa storia in quella casa sono stati bene, ma il loro stare bene era, purtroppo, comunque sotteso all’organizzazione di una realtà voluta e costruita dal capitalismo. Un avere, un essere felici, che presupponeva già un “restituire” futuro, e in questo caso un perdere”