CONCEPT, CREAZIONE PERFORMER: Valeria Bianchi, Aurora Buzzetti, Giulia De Canio
MUSIC AND SOUND DESIGN: Posho
PROGETTO LUCI: Matteo Rubagotti
PRODUZIONE: Compagnia Unterwasser
Non è semplice accostarsi al genere di teatro proposto dalla compagnia Unterwasser, sinergico e talentuoso collettivo al femminile che sabato 11 gennaio ha presentato all’Auditorium Toscanini, attuale sede del Teatro del Cerchio, “Maze”, produzione finalista all’ultimo Premio InBox. Non è semplice per come siamo abituati oggi ad intendere il ritmo della vita, il tempo dell’Essere e del Fare, per come sia disarmante e sorprendente ammettere a noi stessi che, sì, poesia, incanto, leggerezza, grazia, artigianalità, tutti ingredienti di cui questo lavoro è pregno e generoso nel restituire, siano proprio gli elementi che più di altri mancano alla nostra abituale percezione quotidiana.
È questa l’apparente difficoltà che s’incontra ma che si supera in fretta, nell’immanenza di un racconto che procede per immagini e visioni in cui specchiarsi e ritrovarsi. Ci riscopriamo bambini e forse un po’ ingenui, fragili, delicati, sensibili, sicuramente meno intransigenti e più accoglienti, nell’ammirare con stupore le creazioni minuziose, dettagliate e soavemente suggestive, realizzate con fil di ferro, legni, reti, cartoni, materiali poveri, piccole sculture e architetture movimentate a vista, coreografate dalla sapienza delle tre brave performers Valeria Bianchi, Aurora Buzzetti e Giulia De Canio e vivificate dalle fonti luminose che, manovrate con cura e attenzione, restituiscono sul grande schermo del fondale proiezioni di forme, linee, luoghi, volti, significati. Una danza di segni, frammenti esistenziali e sensazioni. Perdiamo l’ausilio del dialogo nel comprendere la storia che sopraggiunge però attraverso un canale comunicativo più antico e universale, quello delle immagini, qui evocatrici di incontri, tappe salienti della crescita, memorie, sogni, dolori, sentimenti.
È un pregiato e raffinato teatro di figura che attinge alla tradizione del teatro d’ombre, la fa propria consapevolmente, e la sorregge con forza ammaliante attraverso il ricercato tessuto sonoro firmato da Posho. Corpi, oggetti, rumori, musiche, ispirazioni poetiche ed estetiche (soprattutto con riferimento esplicito ai ritratti in ferro di Calder), disegni, figure, tratteggi, ombre e luci concorrono e si mescolano a suggerire la traccia drammaturgica, che altro non è se non il racconto di una vita, dal concepimento all’età adulta.
Il labirinto del titolo è dunque quello che si dipana nella mente di chi guarda e, per illusione cinematografica, di chi osserva dietro a quel primo piano prospettico, cioè noi. Diventiamo così, per riflesso effimero ma efficace, i protagonisti delle carrellate e soggettive illuminate sullo schermo, del primo batter di ciglia, degli istanti giocosi trascorsi al parco durante l’infanzia, dei ricordi legati a un piacevole paesaggio naturale o a un rumoroso e frenetico scorcio cittadino, di intimi turbamenti giovanili causati forse da superficiali frequentazioni, del dolore sommesso di un ricovero ospedaliero, di scale e porte che si intersecano e si aprono come pensieri improvvisi, ingovernabili; e poi di una lunga nuotata, una immersione profonda, sorta di simbolica rinascita, che ha inizio nella vasca di una piscina ma arriva per magia ad attraversare fantasiose profondità marine, fino ad emergere nella scoperta di un amore e commutare in un firmamento luminoso (dove abbandonarsi e serenamente allontanarsi ?)
Un universo onirico traboccante di vita, anima, luce e materia in cui si resta piacevolmente sospesi, sorprendentemente rapiti dalla complessità e dalla bellezza delle cose più “semplici”.