La recensione

"L'AZIONE GIOVANILE RACCONTATA NE "LA CLASSE"

DI Vincenzo Manna

CON Claudio Casadio, Andrea Paolotti, Brenno Placido, Edoardo Frullini, Valentina Carli, Andrea Monno, Cecilia D’amico, Giulia Paoletti

REGIA Giuseppe Marini

Produzione Accademia Perduta Romagna Teatri, Goldenart Production, Società per Attori

Non si può parlare de “La classe”- pièce scritta dal drammaturgo romano Vincenzo Manna e rappresentata a Teatro Due  di fronte a una folta platea piacevolmente composta soprattutto da giovani e giovanissimi- senza considerare una premessa importante, fondante di tutto il lavoro: il progetto teatrale prende avvio da una ricerca sociologica condotta dall’istituto Tecné che ha coinvolto, attraverso interviste sul tema della relazione con l’altro e del rapporto con il proprio tempo, circa 2.000 adolescenti fra i 16 e i 19 anni.

La scrittura drammaturgica si è, dunque, avvalsa del contributo decisivo offerto da questo materiale, impregnandosi di esperienze giovanili, di verità documentata, di conflitti e disagi esistenziali vissuti e testimoniati. Ed è proprio la forte percezione di questo realismo, ben sostenuto anche dai toni e dalla gestualità degli interpreti e diretto con mano salda da Giuseppe Marini, a rimarcare il valore civile del lavoro, che però registra, forse per la stessa ragione, qualche passaggio troppo esplicativo, e qualche momento retorico, rallentato, sicuramente meno efficace sul piano icastico e poetico.

Il fulcro vitale dello spettacolo, tuttavia, non ne risente e la centralità dei temi caldi affrontati, ovvero la rabbia sociale, il razzismo, la crisi morale (più pericolosa di quella economica), l’accettazione del “diverso”, l’attenzione politica, la cultura come via illuminata per riscattarsi, non si disperde, né si scolora. “La classe” sa, dunque, raccontare la sua storia disturbante, poiché intrisa di autenticità, e lo fa non solo dal punto di vista corale degli allievi, sei giovani sbandati di periferia, relegati ai confini di una grande città europea che non viene mai nominata, un non-luogo di povertà e degrado nei pressi di un centro di accoglienza per rifugiati chiamato lo “Zoo” (a ribadirne simbolicamente la varia estrazione dei suoi abitanti, nonché l’atmosfera di ferina minacciosità).

Lo sguardo impietoso, disincantato, su questa realtà fatta di violenza, ostilità e paura lo getta per primo il preside (Claudio Casadio) della scuola dove i giovani sono chiamati a frequentare- in un’aula segnata dal freddo (di contro agli animi troppo accesi) e da un tappeto di carta straccia (i resti disordinati di precedenti inutili tentativi didattici) - quelle che sono le ore di lezione sufficienti per recuperare crediti e diplomarsi. Spetta, dunque, alla figura che meglio incarna l’istituzione, ma anche lo status quo, la funzione di prologo e così pure di epilogo, introducendo e chiudendo il racconto con una metafora emblematica che non solo mette in luce la fragilità delle personalità in campo, ma disvela da subito, nel riferimento al comportamento delle galline, la dimensione animalesca delle relazioni e, al tempo stesso, la carica apologetica della messinscena.

Fa poi da contraltare al lucido e rigoroso distacco emotivo del preside, il personaggio di Albert (Andrea Paolotti), l’insegnante che, al contrario, sodale nell’approccio, riesce a scuotere l’animo dei ragazzi e a condurli a una maggiore introspezione, a una più matura consapevolezza delle proprie singole potenzialità, in rapporto alla multietnica collettività in cui si sviluppano. La visione progressista del professore regala così una terza prospettiva, quella in cui è più facile ritrovarsi e credere tenacemente perché sorretta dalla determinazione e dal coraggio di chi per primo si è smarcato da un passato di emarginazione (Albert è un ex rifugiato) diventando conoscitore, oltre che portavoce, dei principi maieutici di educazione e formazione (“Un insegnante che forma vale più di dieci che riformano”).

Più che il coltello brandito dal giovane Nicolas (Brenno Placido) può dunque la dialettica, il confronto, il ragionamento. Anche quando, per aprire la breccia, occorre osare e spingersi a toccare l’argomento più scabroso e paventato, quello della morte. “Facciamo finta che siete morti e che qualcuno debba celebrare il vostro elogio funebre” dice Albert alla classe, costringendo i ragazzi, attraverso le parole accuratamente scelte ed enunciate per descrivere il carattere di ognuno, a fare i conti con i propri limiti, le insicurezze, le ossessioni personali. Come mostri dell’inconscio emergono gli orrori che non sono più soltanto individuali, sono quelli di un mondo esterno, spietato, crudele, che tenta di violare le anime (non solo i corpi) dei propri figli, ma che proprio i giovani possono provare a fronteggiare, trasformare, migliorare. Come? Nell’ascolto, nel rispetto dell'altro, nella presa di coscienza e, infine, nell’azione perché “noi non siamo quello che pensiamo di essere. Siamo quello che facciamo” li esorta Albert.

È così che il gruppo accetta di partecipare ad un bando europeo che ha come tema le giovani vittime dell’Olocausto. Non tanto la tragedia del popolo ebraico consegnataci alla Memoria del presente, e della scena, anche attraverso il personaggio della giovane ebrea Petra, ma una più contemporanea, attuale, prossima ai ragazzi sia cronologicamente che geograficamente (e idealmente anche a noi pubblico): è il conflitto da cui scappano i rifugiati politici che vivono nello “Zoo”, oltre quel muro costruito ai margini della città. Ma la verità non si può isolare, ghettizzare, smorzare nel coprifuoco. La voce della giustizia sociale è più forte, più pervasiva, più caparbia. Circolano segretamente delle foto, dei documenti, un dossier inedito con elenchi di numeri e nomi di torturati che vanno identificati per restituire loro la dignità umana di una storia e di un ricordo.

È questo il corposo e difficile lavoro che investe i membri della classe, e che li porta a “scegliere fra la vita e la morte”, fra la memoria e l’oblio, fra la partecipazione e l’indifferenza. Qualcuno di loro non opterà per la vita (la giovane Arianna tenterà il suicidio entrando in coma e così il violento Nicolas finirà in carcere per aggressione armata) ma gli altri profonderanno grande impegno e abbracceranno con sincera passione la causa politica e sociale, fino a intravedere, con la vincita al concorso, la speranza di un futuro migliore.

Del resto, come conclude sibillinamente il preside “le galline sono dei volatili che non sanno volare, ma hanno gambe robuste e unghie ben piantate”. Nulla è immutabile. E allora forse anche una gallina, un giorno, grazie a costanza, forza e tenacia potrà raggiungere la luna e godere “di un panorama incredibile” su questo nostro duro mondo.

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