L'intervista

Le interviste a protagonisti della scena parmigiana (e non solo) a cura di Francesca Ferrari, giornalista e critico teatrale.

TINDARO GRANATA: "ANTROPOLAROID: ISTANTANEE DI VITA E ARTE"

È una comunità abituata a respirare teatro, quella di Ragazzola, Roccabianca e di tutte le piccole frazioni vicine. Una comunità che, in questi ultimi mesi, ha sofferto non solo per la chiusura temporanea di un importante punto di riferimento aggregativo, ma soprattutto per le proprie perdite umane registrate durante il picco della pandemia. Con dignità e coraggio questo territorio ha saputo reagire e la sua gente è ora pronta a riprendersi almeno una parte di quella socialità tanto attesa che proprio nella condivisione di un’esperienza teatrale può trovare un proprio ideale compimento. Da questa necessità nasce la mini rassegna “Di nuovo il teatro”, che per due serate, venerdì 26 e sabato 27 giugno, alle 21.30, darà a tanti l’occasione di ritrovarsi in uno spazio sicuro (oltremodo regolato secondo la normativa sanitaria vigente) e all’aperto, la splendida Corte Le Giare di Ragazzola. E sarà la luce di un artista speciale, Tindaro Granata, da tutti apprezzato per talento, intelligenza, umanità e umiltà, a brillare nel primo appuntamento, con un suo cavallo di battaglia: quell’ “Antropolaroid”, prodotto da Proxima Res, che negli anni (nove, per esattezza, dal debutto) ha raccolto premi, riconoscimenti e, ciò che più conta, tantissimi applausi. Uno spettacolo di cuore, anima e memoria, questo di Granata, in cui i ricordi personali, le istantanee della propria saga familiare, nel racconto a più voci della vita degli avi, si fondono mirabilmente e con “splendore tragicomico” alla storia della sua terra d’origine, la Sicilia.

Tindaro, quella a Ragazzola sarà la tua prima performance post lockdown? Perché se è così, la serata si carica di ulteriori emozioni per un artista del tuo calibro…. “Sarà senza dubbio per me una serata densa di commozione: non solo è la prima messinscena dopo la riapertura delle attività teatrali, ma è anche  la prima replica di Antropolaroid dopo la scomparsa di Cristina Pezzoli, la regista a cui devo di più per questo lavoro. Lo spettacolo è nato grazie a lei, quando nel 2008, durante un lavoro di gruppo, domandò a noi partecipanti di abbozzare una storia partendo dai nostri bisnonni. Scrissi quel testo e poco per volta lo trasformai in un vero e proprio monologo con più personaggi, tutti interpretati da me. Non posso che essere grato a Cristina, alla sua visione, al suo essere stata così anticonconformista e per certi versi un po’ antiteatrale. Quella del 26 giugno sarà una serata molto emozionante anche per un altro motivo: l’anno prossimo Antropolaroid festeggerà dieci anni. Cristina avrebbe dovuto dedicare una testimonianza scritta, in occasione dell’anniversario. Purtroppo, non ha fatto in tempo, ci ha lasciati prima. Questa ripresa a Ragazzola non potrà che segnare per me una data speciale, che scolpirò nella memoria”

Un monologo dunque che ti ha regalato, e che continua a regalarti, tanto, in termini artistici ed umani. Quanto sei legato ad “Antropolaroid” e quanto ti porti di questo lavoro, dei suoi personaggi, negli altri spettacoli che interpreti? “Umanamente rappresenta tantissimo e non solo perché racconto delle mie origini, ma perché mi ha dato l’opportunità d’instaurare con il pubblico un rapporto di empatia molto profondo; è come se avessi aperto la porta di casa mia, il cassetto con le foto della mia infanzia, e dunque la mia anima, agli spettatori. Ma c’è voluto del tempo perché arrivassi a questa naturalezza e autenticità. Io ho iniziato il mio percorso artistico con una eccellenza, il grande Massimo Ranieri, ma prima di fare l’attore lavoravo come cameriere. Dopo il successo degli inizi, ho faticato molto: ero frustrato perché non riuscivo più ad ottenere i ruoli che volevo e provavo sofferenza e malessere per la situazione di crisi in cui mi trovavo. Diventare attore era il mio sogno, ma quel sogno mi stava rovinando, mi faceva sentire una persona diversa, meno limpida di com’ero in realtà. È stato in quel periodo che ho incontrato la Pezzoli e poi è arrivato Antropolaroid che mi ha dato la possibilità di fare i conti con me stesso, di salvarmi in un certo senso, offrendomi la possibilità di far luce e dar voce alla mia parte più nobile, al mio carattere più autentico, quello che ha a che fare con la mia natura, con le mie radici. In questo atto unico, così ricco di personaggi e cromie psicologiche, c’è tanta consapevolezza mia acquisita, e tanta dignità e onestà, anche nelle piccole licenze poetiche”

Monologo costruito in una pluralità di voci e caratteri quasi leggendari, raccontato, ma potremmo dire “tramandato”, attraverso l’antica tecnica del cunto siciliano. Fotogrammi della tua vita familiare, di memoria e tradizione popolare, che vanno a intrecciarsi, però, anche a gravi fatti di cronaca. Cosa ti ha ispirato nella composizione di questa originale drammaturgia? “Sono cresciuto attraverso i racconti dei miei nonni e a questo modo di evocare immagini ed emozioni così efficace ho attinto a piene mani. Mio nonno, in particolare, ci raccontava sempre delle storie contadine. Alla domenica o durante i giorni di festa, ci raccoglievamo intorno a un tavolo, tutti noi bambini incantati ad ascoltarlo. Quando ho costruito il monologo, ho pensato che non volevo si perdesse questa tradizione orale così antica e che appartiene a tutti noi, di ogni regione d’Italia. L’ispirazione di quei racconti è stata così forte che ne conservo anche un’altra caratteristica: ad ogni replica cambio qualcosa dei personaggi, qualcosa della storia, dono nuove sfumature, e lo faccio perché è così che si faceva una volta, a seconda del pubblico che si aveva davanti. I colori del racconto dipendono sempre dall’ascoltatore e la storia prende vita solo in quello scambio. Ecco perché cerco sempre d’instaurare un dialogo con gli spettatori, li coinvolgo direttamente nella visione della storia”

In questo spettacolo c’è tanta bellezza, tanta ironia, ma anche tanta dolorosa inquietudine. Un senso tragico arcaico, e sì, antropologico, che permea il flusso delle parole, caricandole di valore epico, universale, così da ricondurre alla nostra comune storia umana. Non pensi che tornare a teatro oggi debba significare anche questo, cioè recuperare la relazione con la nostra dimensione umana e dunque anche i suoi tratti più semplici, genuini, spontanei, e meno cerebrali? “In questi ultimi, lunghi, mesi abbiamo imparato a comunicare in un modo inusuale, molto più tecnologico di prima. Tutti, ad esempio, ci siamo dilettati a fare le videochiamate agli amici o a connetterci sulle piattaforme per salutarci in diretta. Quello che però a molti è sfuggito è questo triste fatto: abbiamo imparato a comunicare guardando noi stessi mentre lo facciamo. È un processo innaturale. Vedi gli altri e vedi te mentre parli e interagisci, quindi il tuo parlare entra in relazione in primis con te stesso. È inevitabile che questa modalità comunicativa distragga dall’altro, sposti l’attenzione dall’altro a noi stessi. Il teatro può rappresentare invece una forma di difesa. Nel “qui e ora” siamo costretti a guardare l’altro e ad entrare in relazione con lui. La tecnica quasi primitiva del cunto riesce ad andare anche oltre, io credo: stabilisce in modo profondo una intelligenza emotiva, sentimentale, con lo spettatore. Così facendo, può indicarci una strada per reagire e preservare la nostra umanità, il nostro spirito solidale, quello vero, non la falsa coscienza espressa in slogan come “Andrà tutto bene”. Come possiamo sapere cosa accadrà poi? Chi ha perso un familiare a causa del Covid potrà forse dire “Andrà tutto bene”? Non dobbiamo mai mettere davanti a noi qualcosa che sposti l’attenzione dal problema reale. Il teatro aiuta a mantenerci vigili in questo”

Una prova d’attore articolata, energica, considerato che in scena dai vita a innumerevoli personaggi, molto diversi fra loro, per genere, estrazione, carattere. Negli anni è cambiato il tuo approccio interpretativo alle storie e alle persone qui raccontate? E poi… c’è un personaggio fra questi che ami di più? “Rispetto agli inizi i personaggi sono indubbiamente un po’ cambiati, si sono in qualche modo “adattati” al mio invecchiare, quindi ad esempio le voci femminili sono ora più basse, quelle dei personaggi bambini meno squillanti e via così. Ma al di là dell’aspetto puramente tecnico, è andato mutando qualcosa in risposta a una coscienza mia personale: ogni volta mi sono posto il problema di cosa significasse mettere in scena delle persone realmente esistite o che potevano veramente esistere nei ricordi degli spettatori. Mi sono messo alla prova e così, da sempre, quando salgo in scena, m’immagino d’interpretare una persona che è seduta in sala, che mi guarda, e penso, tra me e me, che devo recitare in modo tale che essa non debba sentirsi presa in giro. Non voglio interpretare delle macchiette e non voglio che la gente veda questo. In Antropolaroid credo, invece, di aver restituito rispetto e amore alle persone della mia vita. Quel racconto è rievocazione di esistenze vere, di una memoria storica in cui ognuno può rispecchiarsi e ritrovarsi. Quali sono le figure che amo di più? Beh, senza dubbio tutti i personaggi femminili che interpreto e questo perché sono da sempre convinto che il Teatro sia donna. Così, adoro vestire il ruolo della mia bisnonna, che qui addirittura racchiude in sé entrambe le anime delle mie antenate, sia materna che paterna. In vita le ho conosciute per poco tempo, ma per me che ero piccolo, incarnavano il mistero, le forze soprannaturali, la magia, con addosso quelle lunghe gonne nere che io toccavo per poi fuggire impaurito!”

Spazio all’aperto e contadino, questo della Corte Le Giare, in cui s’inserirà perfettamente il tuo racconto popolare. La consonanza fra spazio e contenuto è importante a teatro, ma in futuro, nel rispetto delle nuove norme, si riuscirà a preservare questa sinergia? “Ci aspettano giorni complicati, questo è certo. Ora, non voglio fare polemica sulle attuali strategie adottate dal governo, ma quello che stiamo vivendo sul piano umano e relazionale mi spaventa. Ci stanno abituando per legge non solo a restare lontani fisicamente ma anche a concepire le nostre esistenze come spiritualmente distanti fra loro. I rapporti sociali sono, invece, fondamentali per il vivere civile. Cosa accadrà a teatro, avamposto di bellezza e umanità? Se il contenuto di un’opera sarà potente, il contenitore/spazio potrà passare in secondo piano, altrimenti occorrerà intervenire e lo si potrà fare solo in un modo: il teatro dovrà abbracciare, accogliere, dare un senso di casa come mai prima d’ora ha fatto. Quando andremo a riutilizzare gli spazi al chiuso, dovremo sentirci accolti, lavorare rispettando le norme, ma cercando comunque di far superare la paura dell’altro, di rompere tutte quelle barriere psicologiche ed emotive che ora molti di noi costruiscono poiché traumatizzati da quanto accaduto. E come procedere, dunque? Solo combattendo l’impoverimento sociale e intellettuale attraverso l’arte e le sue proposte. L’uomo si dimentica troppo facilmente delle cose belle che ha conquistato e tende a darle per scontate. Dobbiamo lottare tutti assieme non per avvalorare l’idea che “con la cultura non si mangia”, ma per far sì che proprio attraverso la cultura, le sue forme e i suoi linguaggi, si crei una generale condizione sociale che possa dare a tutti da mangiare” 

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