La recensione

IL GIGANTE EGOISTA

di e con Mario Mascitelli. Produzione TDC.

Sarà anche egoista questo “gigante” di Mario Mascitelli, rappresentato al Teatro del Cerchio per la stagione ragazzi, ma la soavità dell’atmosfera in cui si calano racconto e azione lo rendono, soprattutto, estremamente poetico e lieve. Nella produzione “Il gigante egoista”, liberamente ispirata all’omonimo racconto di Oscar Wilde, il regista e interprete Mario Mascitelli regala una bella prova non solo come avvincente narratore ma anche come disinvolto “incantatore”, ben manovrando accorgimenti scenici e suggestive proiezioni di luci che davvero conquistano lo sguardo. La storia, per chi non la conoscesse, narra di un gigante scontroso e solitario che, di ritorno da un viaggio, si ritrova, con grande disappunto, il giardino invaso dai bambini. Una allegra e innocente irruzione giustificata dal fatto che gli spazi per il gioco sono ormai scomparsi e quella casa, dall’ampio e verde giardino, sembra il luogo ideale dove poter scorrazzare in libertà. Ma l’ingombrante proprietario si rivela ben presto un egoista della peggiore specie, tale da decidere, dopo aver cacciato i piccoli intrusi, di erigere un muro. Il racconto è tutto in prima persona e come una tela si srotola fluidamente in un flash back che coinvolge e affascina per la sensibilità con cui si toccano tematiche decisive per la crescita. La scena stessa allude, con immediata comprensibilità, a significati importanti: una panchina deputata al racconto, dinnanzi ad essa tante piccole figure di uccelli, sorretti da piedistalli, a richiamare anche l’idea del gruppo di bambini, e infine due alberi da cui pendono scarpe e cappelli, libri e chiavi, come a dire, gli emblemi materici dello sviluppo fisico e cognitivo di ogni uomo. Ma lo spettacolo non ha ambizioni filosofiche, semmai implicitamente pedagogiche. Il merito risiede tutto in quel saper incarnare (anche negli oggetti) la semplicità e la purezza evocativa peculiare del teatro per ragazzi, indagando con il candore (sinonimo di chiarezza espositiva e conseguente naturale empatia) di un registro linguistico spontaneo e genuino il tema dell’altro, o meglio dire, dell’accettazione dell’altro. La fisicità imponente di Mascitelli viene in quest’ottica addolcita dal costume di scena, che rimanda alla figura comica e, al contempo, nostalgica di Charlot con bombetta e grossi scarponi o a quella, parimenti intrisa di malinconia, di Marcel Marceau. E c’è, sì, un velo di tristezza sospeso sulla storia che, così percependosi, si carica di ulteriore fascinazione poetica. La particolare attenzione sta nel preservare questa palpabile emozione condivisa, senza rinunciare alla leggerezza, la sola che può garantire il rispetto e l’alleanza con gli spettatori più piccoli e che ne conferisce il valore aggiunto: così il peso dei ricordi del gigante, memore di un isolamento sofferto da bambino a causa dell’altezza, viene sapientemente alleggerito da battute e aneddoti divertenti che riescono a strappare più di un sorriso. Ci si commuove alla favola del bambino “qualcos’altro”, strappato alla solitudine dal tenero intervento del bambino “qualcosa” (“perché le favole insegnano ai piccoli ma fanno bene ai grandi”) e tocca il cuore quell’entrata in scena di una bambola (accompagnata dalla voce fuori campo del piccolo Eugenio Mascitelli) a rappresentare il bimbo salvatore: colui che riuscirà ad allontanare l’inverno dal giardino ma, ciò che più conta, insegnerà al gigante il valore dell’amicizia, sciogliendone il ghiaccio del cuore. E in un lungo, grato, applauso si è sciolto il pubblico sul finale.

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