La recensione

TUTTO QUELLO CHE SO DEL GRANO

di Paola Berselli e Stefano Pasquini

con Paola Berselli, Stefano Pasquini e Maurizio Ferraresi

Produzione Teatro delle Ariette

Forse davvero stare insieme è già di per sé un’opera d’arte. Forse non è eccessivo pensare che amarsi e, soprattutto, comprendersi è una impresa teatrale di grande portata (senza velleità ironica). Viene da chiederselo, a più riprese, guardando lo spettacolo “Tutto quello che so del grano” di Paola Berselli e Stefano Pasquini, gli attori-contadini che, insieme all’amico Maurizio Ferraresi, costituiscono il nucleo artistico del Teatro delle Ariette, realtà teatrale hors-catégorie sorta vent’anni fa nell'omonima azienda agricola Le Ariette, vicino Bologna. Teatro e vita si mescolano, si fondono, s’impastano in un amalgama che sa di sentimenti e valori autentici, di profumi, colori, luci, sapori che esulano dal mero racconto autobiografico per comporre, con grazia poetica, un quadro di ricordi da cui ognuno può attingere qualcosa per sé, riconoscere una traccia, un volto, una immagine del proprio vissuto. Sono pochi e semplici gli ingredienti che servono per questa ricetta creativa. Ma, come spesso accade, è proprio in questa semplicità, sempre più rara da trovare (anche a teatro), che risiede la bontà, la bellezza, la riuscita. Paola e Stefano, nella loro spontaneità che genera immediata empatia, partono da un fazzoletto di vita, la loro reale vita di coppia, scandita dal ritmo della campagna, dai tempi della natura, dai compiti cui ognuno deve dedicarsi per il buon andamento dell’azienda agricola di famiglia. Gli animali, la terra, la legna, la casa. Il video iniziale – un po’ troppo lungo per la finalità di presentazione cui sottende- mostra il contesto da cui tutto trae origine, l’ambiente naturale, il lavoro quotidiano, l’equilibrio della relazione, si conoscono gli elementi-chiave che entreranno fattivamente in campo, su quella scena contadina, preventivamente cosparsa di paglia. Cessiamo così di essere solo “spettatori”: siamo in quell’altrove bolognese, nella loro proprietà, fra i chicchi di grano che vengono materialmente versati in un tubo, ammucchiati su un ripiano, pestati in un catino; siamo in quella cucina, con il forno acceso e il tavolo attrezzato per preparare, dal vivo, una focaccia davvero speciale (il tempo della sua cottura corrisponderà al tempo della rappresentazione), in compagnia di un uomo e una donna che vogliono raccontarsi. Felicità, incomprensioni, crisi, emozioni, amore smisurato per la terra, il teatro, la musica di Tom Waits, si esprimono idealmente nella forma di quattro lettere, il cui destinatario, però, volutamente si confonde. Sono scritti indirizzati alla moglie, come dichiara apertamente il Pasquini, ma sono anche per noi che guardiamo, secondo quel patto che è tacito e magico accordo tra l’attore e il suo pubblico. Così la narrazione si dipana, conferendo maggiore forza e significato alla parola “insieme”, più volte ripetuta, tutti noi indistintamente “complici di un sentimento dimenticato: il sentimento del per sempre”. Lentamente, con gesti pazienti e misurati, investiti di una profonda valenza rituale, nel pieno rispetto del mistero della vita e memori delle fasi della natura (“la vita non ha drammaturgia, non sei tu a decidere, come non decidi tu quando seminare il grano”), le Ariette riescono a dissodare il terreno dell’ascolto, a coltivare gli animi, seminando riflessioni significative sulla sospensione del tempo a teatro, sul confine tra arte e realtà, sulla storia di ieri e quella di oggi, sul modus vivendi moderno opposto a quello contadino, sulla necessità di creare esperienze partecipate e comunitarie. C’è bisogno, talvolta, di pace e serenità per accogliere qualche piccola verità e qui, in questa sorta di teatro sensoriale che coinvolge l’olfatto, la vista, il gusto, ne siamo inondati, avvolti da una sensazione di nostalgico benessere e calore. Va detto che in alcuni brevi passaggi la retorica non viene completamente scansata e non sempre si sfugge a qualche ovvietà stilistica, ma ciò che alla fine resta è un ineludibile sentimento di sana e confortante condivisione. “Quello che so del grano è che questa focaccia l’ho fatta per te” cita l’ultima battuta. Noi non possiamo che essere grati per quanto ci viene offerto, per questo momento di teatro intimo, prezioso e benefico, per le parole intrecciate con tanta cura e delicatezza, come un ricamo antico, per averci coinvolti in quella sorta di gioiosa danza cerimoniale delle stagioni (a mimare con le mani i gesti coreografati della Season March di Pina Bausch) e per il cibo fragrante assaporato, insieme, nel bel momento conviviale a fine spettacolo. Per nutrire lo spirito e così pure il corpo.

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