La recensione

MACBETH

Calare la materia della realtà in una forma imagoturgica, scenografica e recitativa che sottolinei non solo la straordinaria pienezza espressiva del linguaggio shakespeariano ma anche la sua forza agente, sempre attuale . In un’ottica così complessa di lavoro, lo sforzo artistico e creativo di Lenz Fondazione (Maria Federica Maestri per installazione e regia, Francesco Pititto per elaborazione drammaturgica e disegno video, Andrea Azzali per composizioni musicali) si è misurato questa volta con la tragedia del “Macbeth”, presentato, dopo il felice debutto nel giugno scorso, a chiusura della XXI edizione del Festival “Natura Dèi Teatri”. Un progetto encomiabile per l’impronta sociale che ne ha contraddistinto la genesi, attraverso la collaborazione fattiva con Ausl-Rems e i video realizzati con alcuni pazienti ospiti degli ex Ospedali Psichiatrici Giudiziari. Tragedia della follia e della colpa, il Macbeth. Follia e colpa reale quella che si traduce visivamente nelle immagini discontinue di sbarre e recinzioni, stagliate su cieli che incupiscono improvvisamente, dissolvendosi, o nei decisi primi piani di volti e dettagli umani (occhi, denti, mani, proiettati sui muri laterali della sala e su un paravento, al centro della scena, ad oggettivare, nel suo aprirsi e chiudersi, una irrisolvibile inquietudine mentale e spirituale); si indugia su questi particolari, per deformare e distorcere una visione quieta della vita, per compromettere, in frammentazione disturbante, la tranquillità dell’anima e meglio avvicinare al suo senso oscuro, lacerante, doloroso. Del resto, è proprio qui che va cercato il fulcro dell’indagine creativa originaria, in quell’inconsolabilità determinata da un’azione delittuosa irreparabile, in quelle ombre e visioni che prima ottenebrano la mente e poi la divorano (e molto si gioca sui toni del grigio e del nero, sia in video che in scena), nell’inesorabilità di una vita che scorre senza tregua, nel flusso di coscienza irrazionale e delirante di chi ha “ucciso il sonno che guarisce, la morte di ogni giorno”. L’opera di Lenz diventa metafora scenica, visionaria e immaginifica, capace di schiudere un mondo emozionale troppo spesso rifuggito eppure vero, ancorché capace di condurre ragione e sentimento oltre il significato della follia, verso una più attenta riflessione sul senso stesso di “azione” (performativa e reale). Il dialogo tra i protagonisti in video e la sola attrice “in presenza” - l’intensa Sandra Soncini,personificazione di Lady Macbeth e sacerdotessa di un rito teatrale dove condividere per gesti e percorsi linguistici quest’intima e profonda angoscia- crea tra vita vera ed esperienza teatrale un indissolubile legame simbolico, sempre sostenuto dalle parole (in reiterazioni e allitterazioni lancinanti), dalla fisicità (mostrata, quasi offerta in sacrificio, o solo raccontata) e, altresì, dalla traccia sonora evocativa e concreta (fusione di musica tonale, atonale ed elettronica). “L’ho fatto io il fatto” ma il fatto in questione non è più solo quello narrato nel capolavoro shakespeariano, a cui comunque idealmente si tende, né quello accennato negli sguardi dei detenuti in video. La macchia indelebile è sulle mani di chi non sa riconoscere la responsabilità dell'agire, di chi non intraprende una via volta all’inclusione, di chi non sa accettare la visione di una comune ineluttabilità destinica, colpa che esula dal crimine ipso facto, poiché “Tutti i nostri yesterdays hanno dato luce ai fools”. Cosa è male e cosa è bene ? Chi è veramente colpevole ? Cosa è reale e cosa è finzione ? “Fair is foul and foul is fair” sussurravano le streghe della tragedia. Così è nella vita, ombra confusa che passa e va, e così pure nella sua “ipostasi” teatrale , con “un povero attore che sgambetta la sua ora upon the stage e poi più niente”.

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