La recensione

IL MALATO IMMAGINARIO

CON: Massimiliano Sbarsi, Cristina Cattellani, Paola De Crescenzo, Emanuele Vezzoli, Luca Nucera, Nanni Tormen, Sergio Filippa, Luca Giombi, Laura Cleri.

REGIA: Walter Le Moli

PRODUZIONE: Fondazione Teatro Due

 

“Il vostro alto sapere è solo una chimera”. Sono queste parole caustiche, dal valore epifanico, a tracciare già nel prologo la via da percorrere per meglio comprendere lo spirito sarcastico, amaro e disilluso che guidò Molière alla composizione de “Il malato immaginario”. Fondazione Teatro Due ha costruito una messinscena rispettosa del capolavoro originario, collocandola intenzionalmente nel solco di un repertorio teatrale consolidato ma non per questo stantio, capace ancora di sorprendere, mutatis mutandis, per impliciti elementi di straordinaria modernità. La scrupolosa regia di Walter Le Moli e la percepibile sintonia creatasi sul palco tra i bravi interpreti ha, così, dato vita a un lavoro ben strutturato nella sua congenita eterogeneità di stili: farsa, commedia, tragedia, moduli propri della Commedia Dell’Arte (con Pulcinella che andrà a chiudere nel finale ma non solo) e forme già affini al dramma borghese hanno saputo bilanciarsi in un delicato, e mai tradito, equilibrio direttamente funzionale alla resa scenica. 

Evidente l'approccio registico volto a non trascurare la componente autobiografica dell’opera, dove la vicenda di Argan assurge ad apologo ironico sulle insicurezze e le fragilità umane, sui sentimenti e la paura della morte, ma offrendosi, in prima battuta, quale “testamento teatrale” di Molière uomo, attore/autore “condannato a far ridere” (come scrisse Giovanni Macchia) malgrado i tanti eventi tragici che lo colpirono. Così, lo spazio scenico, realizzato da Luca Pignatelli tra classicismo e minimalismo contemporaneo, i costumi di Gianluca Falaschi - tutti in stile family comedy anni ’50, ad eccezione del protagonista in parrucca barocca e vestaglia/livrea rossa, padrone e servo della sua malattia- e gli arrangiamenti musicali di Bruno De Franceschi (intrecciati alla musicalità propria della partitura testuale), hanno sostenuto idealmente, attraverso poche ma essenziali suggestioni visive e sonore, questa preponderante chiave di lettura.

Sul palco, al centro, solo uno scranno regale, e sul fondale, a dominare la scena, un arazzo consunto ma di pregiata fattura orientale in cui campeggia l’effigie greco-romana del volto di un giovinetto; emblema classico di salute e vigore, ma già in sé portatore di difetti umani ineluttabili, qui simboleggiati dallo sfregio del naso e da strappi e lacerazioni del tessuto che vanno a compromettere l’uniformità dell’immagine. Seduto su quel trono fittizio, c’è Argan/Molière, nella sua maschera da Re Sole (lampante il richiamo all’epoca dell’autore e al vero Luigi XIV, da cui venne prima protetto e poi licenziato), regnante lasciato solo a “governare” il lungo elenco dei lavativi intestinali, degli infusi, delle medicine, di pari al conteggio delle corrispondenti esose tariffe applicate, discusse qui in forma di soliloquio con un “immaginario” farmacista.

Nel ruolo del protagonista Massimiliano Sbarsi che caratterizza efficacemente- sia nella poca azione a lui ascritta, sia nella voce scientemente calibrata su tonalità “introflesse”- una figura insoddisfatta e frustrata, un po’ spettatore passivo del grande Teatro della vita, un po’ bambino smanioso di amorevoli cure (le cercherà, sbagliando, nella moglie calcolatrice e arrivista) e un po’ padre-padrone senza apparente riconosciuta autorevolezza (sempre in aperto scontro verbale con l’intrigante serva Toinette e inutilmente punitivo con le figlie disobbedienti). In lui si annida un male non fisico (come fu, invece, per l’autore in vita) ma tutto psicologico, un mal du siècle ante litteram che lo consuma e lo conduce ad una profonda, intima apatia, dove, tuttavia, fa ancora capolino la volontà, una logora ma resistente presenza a sé stesso che va esaurendosi in quella incrollabile, e per questo risibile, fede laica nella medicina e nella sapienza dei professori (quel Purgon e quei Fecis da lui interpellati e rappresentati con le inquietanti maschere dei dottori della peste). La sua è una paura della morte che lo allontana, in realtà, dalla bellezza della vita, rendendolo incapace di distinguere l’affetto sincero della figlia da quello fasullo della moglie o di riconoscere il sentimento d’amore autentico fra Angelica e Cleante, di contro alla pantomima inscenata dai gretti rappresentanti della società accademica. Per poter scoprire la verità, Argan dovrà affidarsi alle astuzie di Toinette, come da migliore tradizione della Commedia cinquecentesca, e ciò che è più importante dovrà applicarsi personalmente nel gioco teatrale per giovarsi della straordinaria forza disvelatrice insita in esso (metateatralità risolutiva che ricorre in altri momenti della pièce).

Nell’ultima parte che lo vede a confronto con il fratello, suo alter ego rappresentato come angelo della Ragionevolezza e coscienza, in elegante frac dorato con ali barocche posticce, Argan tradisce la debolezza del proprio pensiero. Inutile difendere indefessamente la medicina e i suoi “trucchi” e inutile screditare i reali benefici umani ed emotivi apportati da un Teatro arguto come quello di Molière, in quella che è una intelligente autocitazione/autocritica. Sul proscenio, di fronte a parole e ammonimenti quali “ E’ la nostra inquietudine che ci rovina” e “Il principio della vita sta in te” che il fratello rivolge a lui ma direttamente anche al pubblico, il malato vacilla nelle sue convinzioni. Cede alla lusinga di una cerimonia che in cuor suo sa essere farlocca, per acquisire il titolo di “medico di se stesso” ma, sul finale, ne percepisce tutta l’assurdità, segnando infine nell’abbandono di una scena abitata da finti medici, ora più che mai artificiosa e “immaginaria”, il passaggio a una nuova e più matura consapevolezza di sé.

Qualcosa nella seconda parte poteva essere sicuramente sfrondato (soprattutto nelle battute in "latino") ma la lunga durata dello spettacolo (più di due ore e mezza) non ha rarefatto l’entusiasmo dei tanti applausi al termine.

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