La recensione

HAMLET SOLO

TRADUZIONE, DRAMMATURGIA, IMAGOTURGIA: Francesco Pititto

REGIA, INSTALLAZIONE, COSTUMI: Maria Federica Maestri

MUSICA: Andrea Azzali

INTERPRETE: Barbara Voghera

PRODUZIONE: Lenz Fondazione

Dare espressione alle disarmonie, alle sproporzioni, a una bellezza disordinata che non vuol dire esplorazione dell’alterità, della difformità ma evocazione del mistero originale del teatro stesso. Non è avventato pensare che sia questo uno dei principi ispiratori della recente creazione scenica e imagoturgica di Lenz Fondazione “Hamlet Solo”, frutto di un elaborato attraversamento artistico dell’opera shakespeariana iniziato alla fine degli anni 90 dall’ensemble fondato da Maria Federica Maestri e Francesco Pititto.

Di certo la fiera presenza fisica e poetica della brava attrice “sensibile” Barbara Voghera, protagonista dell’intenso monologo, insieme alle immagini video dal realismo sofferto, doloroso, esasperante di malati psichici, proiettano sulla scena una sostanza esplosiva da cui è difficile proteggersi, rivelatrice della tragedia esistenziale umana che è essenza stessa di Amleto, ma così pure di un aspetto metafisico che proprio nella diversità va amplificandosi quasi ferocemente. Pur nell’essenzialità del plot, nel suo trasporre sinteticamente la complessità di un’opera monumentale in una sola figura e nelle sue molteplici rifrazioni interiori, “Hamlet Solo” resta un lavoro teatrale non facile da accogliere, e proprio perché molto si snoda su quelle ombre, reali, prospettiche, intellettuali, emozionali o fisiche che volutamente confondono e, talvolta, spaventano fin quasi a volerle rifuggire.

Con la battuta “Io sono Amleto” Barbara Voghera assume su di sé il peso, il radicalismo e la compiutezza di un topos tragico universale molto dibattuto, con la sua natura orfana, la solitudine, il disgusto verso una “terra fetida e una carne marcia”, restituendo alle parole- declamate sempre puntualmente , confermandosi interprete capace, di grande maturità artistica- ai dialoghi introflessi o a quelli espletati in video con gli spettri degli altri personaggi ( il fantasma del padre, Orazio, la regina Gertrude, il re Claudio, Ofelia…) una visceralità di senso che è autentica e al tempo stesso atroce, lancinante per il grado emozionale doloroso che muove, e perciò non facile da accettare.

La tensione che si crea e l’inquietudine ingenerata si compongono anche nel riconoscimento della concentrazione e densità di ogni singolo passaggio shakespeariano, che qui cerca convergenza estetica nell’azione performativa circoscritta ma anche nella plasticità della rigorosa traduzione scenica, cifra stilistica distintiva e pregnante degli allestimenti lenziani. Lo spazio è così governato dal respiro di un “solo” essere umano, soggetto che si fa interprete del palcoscenico della vita, maschera tragica, con la biacca in volto, del grande teatro del mondo, padrone di segreti, colpe e ancestrali paure, oggettivate da un libro, un teschio con cappello funebre e un capitello su cui poggia un lugubre tulle nero, a formare una creatura minacciosa.

Non ci sono sfumature di senso e dissolvenze di visioni a cui aggrapparsi in questa atmosfera mesta e decadente, dove domina incontrastato il terrore della morte e va a fallire l’idea di un comune riscatto esistenziale. Un fatalismo tragico dichiarato, espresso, ad esempio, verbalmente nella reiterazione della parola “morto”, al momento destinato ad Ofelia, o in quelle immagini in moviola, talvolta volutamente fuori sincrono, che vanno, infine, a chiudersi nella rappresentazione visiva di tre corpi distesi e inerti.

L’indagine qui compiuta da Lenz risulta forse a tratti estremizzata nella tenace e legittima ricerca della “dolorosa poesia” racchiusa nella bellezza umana imperfetta, ma la struttura complessiva del lavoro si mantiene come sempre salda su accorgimenti e soluzioni registiche precise, ciascuna con la sua direzione, il suo scopo. Le parole (anche le più oscene, ripetute da voci fuori campo come una turpe litania da condannati) sanno farsi magneti, adagiandosi su uno spazio interiore ancora vuoto e riportando in superficie, una volta pronunciate, quello scarto che è il paradosso tragico e grottesco dell’intera esistenza umana.

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