La recensione

GIULIO CESARE

Di William Shakespeare

TRADUZIONE: Sergio Perosa

CON: Michele Riondino, Mariagrazia Mandruzzato, Stefano Scandaletti, Michele Maccagno, Silvia Costa, Margherita Mannino, Eleonora Panizzo, Pietro Quadrino, Riccardo Gamba, Raquel Gualtiero, Beatrice Fedi, Andrea Fagarazzi

ADATTAMENTO E REGIA: Alex Rigola

PRODUZIONE: Teatro Stabile del Veneto

E’ nel valore didascalico di quella iniziale “contraddizione umana” proiettata così, nella sua determinatezza nominale, sullo schermo-fondale, e subito accompagnata dalle immagini documento dell’ex presidente Obama mentre assiste in diretta all’uccisione di Bin Laden, che si individua la traccia tematica precipua di questo interessante adattamento teatrale del “Giulio Cesare” di Shakespeare, per la regia di Alex Rigola. Nella paradossale attestazione di un premio Nobel per la pace che ordina l’esecuzione di qualcuno si insinua la domanda più ovvia: la violenza è e sarà, dunque, sempre necessaria ? E se davvero questa è la regola che sottende ogni gioco di potere, che futuro potrà mai aspettarci ?

L’attualità di quella proiezione, così come la sconcertante visione della foto del bimbo curdo trovato senza vita, riverso su una spiaggia del Mediterraneo, confluisce in una drammaturgia insolita, forte dell’antica e inestimabile matrice poetico-letteraria ma estremamente contemporanea nell’interrogarsi su questioni etiche e politiche sempiterne. Qui risiede l’efficacia della messinscena che, nondimeno, non è scevra da alcune debolezze formali e strutturali, riscontrabili proprio in talune soluzioni eccessivamente stranianti (come il travesti dei personaggi con ingombranti tute di peluche dalla testa di lupo Ezechiele ), per certi aspetti forse più congeniali ad altri tipi di linguaggio (cinematografico o puramente performativo) che non a un’opera teatrale capace di ergersi pienamente sulla potenza delle parole.

Forse è proprio questo che viene in parte a mancare nell’adattamento di Rigola: l’universalità di un tema quale il fascino del potere e l’umano conflitto interiore che sfocia nella giustificazione del delitto politico in nome ragion di stato, cede a tratti il passo a una contestualizzazione di tempi e modalità espressive forse troppo riconoscibili nella loro perturbante modernità. La scena essenziale comprova questa intenzionalità di fondo: due microfoni ad asta, posti ai lati del proscenio, per aprire squarci intimisti, tanto subitanei quanto confusi, sui personaggi di Cassio e Bruto, per amplificare alcuni pensieri e quindi sostenere il cruciale momento dell’orazione di Marco Antonio (bravo Michele Riondino ma non determinante per la resa complessiva dello spettacolo), e soprattutto quel grande rettangolo di pannelli amovibili su cui compaiono sequenze video decisive ad alimentare il dipanarsi della vicenda.

Una struttura geometrica che è spazio bianco su cui incidere visivamente due parole strettamente connesse tra loro, anche per assonanza, “Words” e “War”, a suggellare rispettivamente il primo e il secondo atto, marchiandone a fuoco i significati intrinsechi, e che diventa stanza-mattatoio dove compiere indisturbati l’orrendo delitto. Si imprime e si consuma tra quei due nomi e quello spazio acromatico e asettico, poi macchiato letteralmente di una sostanza rosso sangue, l’assassinio di Cesare, interpretato simbolicamente da una donna, una Mariagrazia Mandruzzato dal regale portamento e misterioso carisma, e lì, fra parole e guerra, termini distinti e pure così legati fra loro, si confonde il senso profondo di quel “momento in cui l’uomo è padrone del suo destino” , ancora capace di discernere, anziché annientarsi nel dilemma se uccidere con coraggio oppure con ira.

Dopo la morte dell’imperatore e le orazioni funebre rivolte direttamente alla platea, fattasi foro romano e assemblea popolare, si apre una seconda parte più concitata, dove l’azione scenica è quasi soppressa, risolta nell’allineamento sul proscenio di numerosi microfoni ad asta dove i diversi personaggi (molti i ruoli maschili affidati ad attrici di buona incisività), alternandosi tra loro, raccontano in una serrata polifonia di voci, le operazioni militari della battaglia di Filippi e la trama di relazioni politiche e intrecci di potere che va definendosi.

Sul fondo, dietro allo schieramento frontale, non più lo schermo della prima parte ma un cumulo di ossa accatastate che vengono via via rimosse, una ad una, al ritmo veloce, nervoso e convulso ingenerato dalle continue entrate e uscite dei protagonisti, fra corse frenetiche, intrecciate a movimenti danzati e ad accenni di arti marziali.

Dalla catasta di morte emerge, infine, il gigantesco fantoccio stilizzato del piccolo cadavere ritrovato sulla spiaggia e quell’ultima battuta “trattiamolo con tutti i riguardi e tutti i riti funebri. La guerra è finita” ci conduce ben al di là della morte di Cesare, del ricordo della sua vicenda, della interrogazione storica e della indagine compiuta in forma teatrale. Ci rivela una tragedia di guerra reale che sembra, invece (di nuovo il paradosso umano dell’inizio) non avere fine, che sa farsi ogni giorno più aberrante poiché colpisce gli indifesi, quei bambini che diventano così icone rappresentative della nostra epoca, figure del dolore da celebrare con onore e non solo: vittime innocenti a cui chiedere un sommesso perdono, oltre il tempo e lo spazio di uno spettacolo.

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