L'intervista

Le interviste a protagonisti della scena parmigiana (e non solo) a cura di Francesca Ferrari, giornalista e critico teatrale.

"I PERSIANI" DI ESCHILO- Intervista a Elisabetta Pozzi e Andrea Chiodi

Se volessimo fare un excursus nella storia del teatro usando proprio quelle nozioni che ne costituiscono il glossario di pertinenza, potremmo dire, senz’ombra di dubbio, che le tragedie di Eschilo, e in particolare “I Persiani”, rappresentano il Primo Atto di quanto, dal 500 a.C circa ad oggi, ha composto la dimensione dello spettacolo teatrale come la conosciamo. Il più arcaico dei tre grandi tragici e la più arcaica delle tragedie, a noi pervenuta nella sua interezza, torneranno a risplendere nella loro inesauribile forza e straordinaria modernità su un palco speciale, l’Arena Shakespeare del Teatro Due, e con una grandiosa interprete, amatissima dal pubblico, a far da protagonista femminile: Elisabetta Pozzi. Lo spettacolo, in scena questa sera e domani alle ore 21, muove ancora una volta dalla ormai consolidata e feconda collaborazione tra l’attrice e il regista Andrea Chiodi, con cui negli ultimi anni ha esplorato alcune tra le più note figure classiche (ricordiamo “Elena”, nel progetto su Ritsos, e “Medea”, entrambe produzioni di Fondazione Teatro Due).

Molto del vostro recente lavoro si è rivolto al recupero di opere classiche. Doveroso, quindi, l’attraversamento di questa fondamentale tragedia di Eschilo ma in quale prospettiva di sviluppo? (CHIODI) Intanto posso dire che l’incontro con Elisabetta è stato determinante. Avere la possibilità di lavorare con una grande artista che valorizza e sa valorizzare tutte le intuizioni è una occasione meravigliosa e stimolante. E mi lusinga il fatto che la stima sia reciproca. Per un giovane regista come me è una opportunità straordinaria. Tutto è nato circa cinque anni fa, con un lavoro che partiva da una storia classica ma su un testo contemporaneo, “Giovanna d’Arco” di Maria Luisa Spaziani; poi, insieme abbiamo deciso di affrontare “Elena”, quindi “Medea”. Il mito e i grandi testi classici mi hanno sempre molto affascinato: mi sono laureato in legge con una tesi sulla tragedia greca antica, precisamente sull’”Antigone come fonte del diritto”. Ritengo che il mondo antico offra ispirazione continua al contemporaneo. La tragedia classica parla all’Uomo, sempre. Così, su questa visione condivisa con Elisabetta, siamo arrivati a “I Persiani”, opera che racconta di un rischio che nasce da una guerra, tema quanto mai attuale oggigiorno.

Quanto dice è vero: conflittualità tra i popoli, tracotanza del prevaricatore, senso di appartenenza alla propria comunità sono temi fondanti questo antico capolavoro ma ancora molto sentiti, se rapportati ai delicati equilibri politici e sociali che viviamo. (CHIODI) Credo che sia il nodo centrale di chi fa teatro. L’estetica è molto importante, perché il teatro ha le sue grammatiche, le sue formule e anch’io parto spesso da un immaginario. Però, oltre a questo, deve esserci un racconto per il pubblico, l’importanza del testo è questa. E qui il pubblico è protagonista più che mai perché Eschilo scrisse questa tragedia proprio per gli ateniesi. Rappresentarla agli occhi dell’uomo moderno significa ricordare come la guerra sia, tuttora, vicina a noi, presente nelle nostre strade, nelle nostre città e come ovunque si percepisca una possibilità imminente di distruzione. Quando il personaggio di Dario dice “ Avete distrutto i templi e gli altari”, ecco che non possono tornarci alla mente le immagini che vediamo nei telegiornali.

(POZZI ) E’ poi interessante vedere come due culture diverse siano state messe a confronto e raccontate così magnificamente dalla grande capacità dell’autore. Eschilo ha dato voce e interpretato la sofferenza di un popolo nemico, ha restituito il punto di vista dell’Altro. Ha capito che è importante far comprendere il rovescio della medaglia. Il pubblico greco di allora si è di certo trovato di fronte alla rappresentazione di un monito morale e civile, poiché la guerra porta sempre con sé dolore e rovina. Magnifiche a questo scopo le battute, quelle del messaggero, ad esempio, ma anche quella di Dario che invita a “vivere nel presente”, a godere di quello che si ha e a non investire troppo sul futuro. Anche oggi la società è tutta proiettata su un divenire di cui non si sa nulla e che non si possiede, dimenticando che conta soprattutto quello che accade nel presente, intorno a noi.

Chi è Atossa, unica figura femminile di questa tragedia ? (POZZI) E’ innanzitutto una madre. Eschilo la rappresenta esattamente così. La madre del regnante Serse e, sì, anche la moglie del defunto Dario ma nelle sue parole risuona molto la preoccupazione per il figlio che combatte. Le battute finali sono esemplificative: nonostante Serse abbia perso e peccato di superbia, lei dice, rivolgendosi al coro, “io andrò alla reggia e cercherò per mio figlio un abito lussuoso, andrò incontro a lui, perché nella disgrazia non tradirò chi amo più di ogni altro”. Sono parole di una madre più che di una regina. Va detto, inoltre, che questa è una tragedia non mitologica ma di cronaca storica, racconta di fatti accaduti realmente, della battaglia di Salamina. Tra gli intenti dell’autore vi era quello di rendere “patetici”, nel senso di muovere a “pathos”, alcuni personaggi che potessero suscitare compassione nel pubblico ateniese: e chi più di una madre poteva far questo? Unica figura femminile, inoltre, che va caricandosi così di una valenza materna universale.

Tragedia antica che non può disgiungersi da un elemento fondamentale: il protagonismo del coro. Come si compone sul piano della messinscena e della interazione recitativa tra le parti ? (CHIODI) E’ una invenzione meravigliosa perché il coro è il narratore interno della vicenda che, al tempo stesso, partecipa alla vicenda, la narra e ne diventa personaggio, portando avanti la storia. Noi abbiamo lavorato con un gruppo di attori giovani mentre ne “I Persiani” si ripete più volte come il coro sia composto da vecchi. L’ipotesi di un gruppo di giovani mi ha regalato nuove suggestioni: li ho immaginati come giovani rimasti a casa dalla guerra, vigorosi, che festeggiano con entusiasmo il conflitto. Molti ragazzi di oggi hanno la stessa facilità ad esaltarsi per cose anche violente, senza conoscere o presagire le reali conseguenze a cui può portare l’odio. Nella tragedia saranno le notizie del messaggero a far mutare il pensiero del coro e a restituire un senso di consapevolezza. Da una possibile e sperata gloria, la guerra conduce presto a una certezza di dolore e sventura.

(POZZI) Io ho sempre considerato il coro come una entità “astratta”, seppur formata da individui concreti, dunque particolarissima. Se penso ad Euripide, il coro è molto più personalizzato, composto da uomini e donne identificabili, che raccontano e prendono parte all’azione. In Eschilo, invece, il coro è costituito da coloro che presiedono alla storia di una città, che sono depositari di un ricordo, di una memoria collettiva, di una sapienza, e gli individui non sono personalizzabili, caratterizzabili. In questo caso Atossa si relaziona con loro come se fossero sudditi. Si sente protetta da loro ma ne rappresenta, in qualche modo, anche la madre, a maggior ragione qui che sono giovani. Per lei il coro è una entità di appoggio fortissima, tant’è che la regina continua a chiamarla continuamente in causa, chiedendo consiglio e sostegno.

La società greca ritrovava nel rito tragico un momento di consonanza profonda per suggellare la propria identità. E’ ancora questo il valore della tragedia a teatro e uno spazio “agorà” come l’Arena Shakespeare può aiutare a recuperare il senso antico, culturale e civile, della fruizione? (CHIODI) Secondo me sì, perché se in negativo l’uomo non muta, è pur vero che resta immutabile nelle passioni positive. Certo molto è cambiato per i tempi, per quello che accade nella società moderna. Per il pubblico greco antico c’era una immedesimazione completa. Eschilo mostrava il punto di vista del barbaro, dello sconfitto, fino a commuovere il pubblico e usava nomi che erano facilmente riconoscibili, creando una corrispondenza immediata, giocata sull’empatia. Oggi, restituire quella emozione non è possibile, ma quello che può commuovere allo stesso modo sono le vicende umane qui narrate: il rapporto madre- figlio, le grandi sconfitte, un padre che torna dall’aldilà, il messaggero che racconta dei morti, una regina che, straziandosi per la sconfitta, si scompone nella sua regalità. Questa è la forza della tragedia antica: riuscire a parlare al cuore dell’uomo, e farlo in un teatro all’aperto, nel cuore di una città, è magico. Si recupera nell’architettura dell’Arena la funzione di dialogo con la cittadinanza che era propria del rito teatrale greco.

(POZZI) Certamente le arene invitano a una fruizione più diretta e richiamano all’avvenimento straordinario che significava il teatro nell’antichità, ma bisogna scegliere con cura i testi. Il mondo esterno si manifesta spesso in modo improvviso e dirompente in questi spazi aperti. Passa un aereo e...si sa, la gente inevitabilmente, per qualche secondo, si distrae. Allora, bisogna essere molto bravi a supportare bene con la strumentazione, con la tecnica, basti pensare a quanto sia importante una corretta amplificazione. Ma, più di tutto, occorre riflettere con attenzione su quello che si vuole rappresentare all’aperto. Beh…crediamo che “I Persiani” sia un’ottima scelta.

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