Shakespeare e Eschilo. Due padri fondatori, seppur non coevi, della meravigliosa quanto controversa arte teatrale hanno contraddistinto la programmazione di prosa – già avviato anche un interessante percorso parallelo di appuntamenti sulla poesia contemporanea- dei primi quindici giorni dell’Arena Shakespeare. Spazio nuovo e originale, quest’ultimo, che crea già nella sua particolare architettura, inclusiva di una semicircolarità tipica del teatro greco classico e un boccascena di quinte, con travi lignee, d’impronta elisabettiana, una simbolica e profonda relazione tra i due straordinari autori citati. Ma l’accostamento ideale ha intrapreso, alfine, direzioni rappresentative diametralmente opposte, anche nei messaggi di cui le opere prescelte si son fatte carico: per il Bardo una delle sue commedie più gioiose e spensierate, “Sogno di una notte di mezza estate”, che qui, conservando la natura favolistica e tutti gli ingredienti propri del plot letterario, si è tradotta nell’immaginario musicale composto sull’opera da Felix Mendelssohn Bartholdy nel diciannovesimo secolo; per Eschilo, la più antica delle tragedie nonchè la sola fondata su fatti storici realmente accaduti e non propriamente sul mito, “I Persiani”.
In una calda sera d’estate, corrispondente, giustappunto, al solstizio, il debutto del “Sogno”, che si è avvalso di una doppia illustre regia (quella teatrale di Walter Le Moli, a guidare il gruppo dei bravi attori coinvolti, e quella musicale di Noris Borgogelli, a dirigere la prestigiosa orchestra Filarmonica Arturo Toscanini e gli interventi cantati), ha entusiasmato il foltissimo pubblico presente. Indiscutibile la fascinazione esercitata da quel riuscito connubio fra note briose e vivaci, egregiamente calibrate nella conduzione musicale di una trama sonora che resta, va detto, la vera protagonista, e l’agire di attori ottimamente armonizzati sul piano vocale e performativo. Il ben noto gioco delle coppie, costruito su un intreccio fittissimo di piccoli malintesi, torti, rivalse, gelosie, fantasiose metamorfosi e magici incantesimi, si è vivificato in un puntuale incastro di entrate e uscite che hanno movimentato lo spazio attinente ai musicisti, coinvolgendoli direttamente o indirettamente nell’azione narrata. E così il beffardo Puck (menzione speciale a Luca Nucera nel regalare una figura straordinariamente moderna, sfrontata, irriverente e sensuale, da spiritello cattivo e dispettoso, in bilico tra la cinematografia di Tim Burton e il più classico “Rocky Horror Picture Show”) appare in tutta la sua indomita spavalderia a sistemare i leggii laterali che serviranno ai personaggi rappresentanti della Corte, la città di Atene (Ippolita e Teseo, soprattutto, ma anche Ermia, Elena e gli amati Lisandro e Demetrio), a posizionare sedie da orchestrali (richiamando al protagonismo della componente musicale), a danzare abilmente con quei cuscini su cui poggerà il sogno di Titania, regina delle fate, qui più che mai audace in un insolito costume da varietà “burlesque”. Impegnato, dunque, ad allestire con ironia quell’idea di “teatro nel teatro”, di “play within the play”, che raggiungerà il suo apice nell’ingresso farsesco ed esilarante- sullo spazio antistante le sedute (l’orchestra greca) e sconfinante anche in una subitanea scorribanda sulle scalinate- della strampalata compagnia di artigiani/attori con la loro rappresentazione di “Piramo e Tisbe”. Grazie alla generosità del concerto di note e alla poesia espressa nelle parole (scrupoloso e attento il lavoro di traduzione di Luca Fontana nel restituire ritmo e musicalità ai dialoghi in versi), nella messinscena di questa favola romantica che è il “Sogno” di Shakespeare reinterpretato attraverso le suggestioni e visioni mendelssohniane, le brillanti peripezie dei personaggi si sono dipanate con grande lievità e piacevolezza riuscendo davvero ad “invocare gioia e pace”, com’era nell’intento del suo autore primigenio.
Di tutt’altra atmosfera respira, invece, la tragedia diretta da Andrea Chiodi, rappresentata in prima nazionale il 5 luglio scorso, con l’intensa Elisabetta Pozzi nel ruolo della regina Atossa. Siamo subito trasportati in una dimensione greve e inquieta da quel tappeto sonoro che richiama tamburi lontani, battaglie antiche, conflitti tra popoli (Daniele D’Angelo ne cura il disegno musicale). Un ancestrale richiamo alla primordiale, e purtroppo eterna, natura bellica dell’uomo. La scena che ci accoglie genera, al contempo, un contrappunto e una corrispondenza visiva a quelle sensazioni: c’è pace apparente tra un ulivo secolare (che, però, ha radici scoperte, fuori dalla terra da cui è germogliato), a lato della scena, e il fondale su cui campeggia il ritratto di Serse, immortalato con piglio severo e indice puntato, in atteggiamento di perentoria chiamata alle armi (nel ricordo del manifesto americano “I want you” ). Entra il coro. Non i vecchi soloni, i sapienti di cui parla la tragedia classica, ma giovani uomini, pieni di forza, vigorosi, seppur stretti in abiti di una perturbante modernità. Danzano di ritmi elettronici, quasi psichedelici, presi dall’euforia del conflitto che vedrà i Persiani fronteggiare e (forse) vincere gli Ateniesi. Ma il presagio di sventura non molla la presa, non si sperde in quella immagine di straniante entusiasmo e ad avvalorarlo arriva la regina: splendida, come sempre, Elisabetta Pozzi, a destreggiarsi in movenze, espressioni e toni che volutamente suggeriscono, senza mai eccedere, la regalità di un personaggio umanissimo e sofferto, madre addolorata più che regina. “Sogni e visioni notturne” della donna sfumano nella cronaca reale, dettagliata, della battaglia di Salamina, di cui si fa portavoce il sopraggiunto messaggero (bravissimo Ivan Zerbinati nella descrizione febbrile e angosciata del conflitto) e investono di quella tragicità epica e universale che è propria di una opera senza tempo, di un archetipo letterario che ancora sa parlare (meglio sarebbe dire, gridare) all’uomo di oggi. Tanti i momenti in cui si percepisce una commozione condivisa e sincera: nell’annuncio della disfatta persiana cui segue lo strazio di Atossa, che va dilagandosi e dilatandosi nella moviola di gesti caricati di una più pesante disperazione, ad esempio, oppure nell’evocazione del defunto marito Dario chiamato a declamare le parole dei padri, a farle risuonare come ammonimento verso chi non teme la sciagura soggiacente all’odio, alla follia e alla tracotanza, ovverosia alla hybris. La parola “sventura” riecheggia e accompagna l’entrata finale di Serse: l’accorata, lancinante manifestazione del senso di colpa e del tormento del condottiero, resa molto bene da Raffaele Esposito, va così a detronizzare simbolicamente la figura guerresca e trionfante dell’iniziale, fulmineo, passaggio a cavallo su una sorta di marmorea scultura celebrativa. L’impianto drammaturgico è governato da una regia attenta e posa su un nitore recitativo che, lavorando per sottrazione, arriva all’essenza del significato, al nucleo della tragedia, in un formidabile rispetto delle prossemiche e dei tempi d’interazione da parte di tutti gli interpreti, ognuno aderente al proprio ruolo, sia questo identificabile nella individualità di un carattere o facente parte del coro (precisissimi, difatti, anche i passaggi affidati ai giovani attori chiamati allo scopo). Davvero meritati, al termine, i tanti e fragorosi applausi.