La recensione

MI RICHORDO ANCHORA

PROGETTO: Giulia Morelli

CON: Silvio Castiglioni

CO-REGIA E COLLABORAZIONE DRAMMATURGICA: Giovanni Guerrieri

SCENOGRAFIA: Nicolò Cecchella

PRODUZIONE: CRT Teatro dell’Arte – Triennale di Milano

E’ possibile raccontare e, quindi, definire col linguaggio “l’intima alchimia di un pittore”? Il quesito che ha accolto e accompagnato un piccolo, privilegiato gruppo di spettatori all’ingresso dell’affascinante percorso ideato negli spazi del Teatro Sociale di Gualtieri, per conoscere la vicenda esistenziale ed artistica di Pietro Ghizzardi, ha restituito un valore antifrastico all’assunto suggerito della determinazione improbabile. Certo non si può descrivere uno slancio interiore, circoscrivere in formule logico-sintattiche il fuoco di una vocazione che sfida e brucia le difficoltà della vita, l’ignoranza, la povertà, l’isolamento, ma si può tentare di far percepire la sua aura creativa. Attraversare quell’ispirazione irruente e vivida, è possibile, attingendo ai ricordi, agli scritti autobiografici ricomposti in una drammaturgia non banale e, ovviamente, all’osservazione diretta delle opere artistiche.

Il viaggio teatrale “Mi richordo anchora”, progettato e scritto da Giulia Morelli, pronipote dello stesso Ghizzardi, ed egregiamente interpretato, con misura e rispetto, senza eccedenze rischiosamente macchiettistiche, da Silvio Castiglioni, ha ricreato la dimensione intima e personale dell’artista della Bassa padana, coevo del più noto Antonio Ligabue, ricollocandola, con delicatezza e dignità, nell’atmosfera epica di un mondo contadino antico, sospeso fra tradizione e superstizione. Il dinamismo spaziale di un itinerario costruito per simboliche stanze, idealmente riconducibili a tappe della vita di Ghizzardi, in un luogo, Gualtieri, impregnato della malìa nostalgica delle terre care a Giovannino Guareschi, ha molto aiutato ad avvicinarsi alla verità storica e alla realtà rappresentata dall’artista.

Sotto la guida attenta di Castiglioni, sempre preciso nel rendere i passaggi tra diversi punti di vista e prospettive di narrazione, ci si è addentrati nel buio di un passato remoto, quasi leggendario, legato all’infanzia di Ghizzardi, uomo umile e incolto, per poi gradatamente scoprire, veicolata dalla parola e da un puntuale disegno di luci, ora fioche ora accese, l’affermazione di un talento ardito e sperimentatore. Quella pittura fortemente voluta, realizzata con materiali di fortuna -cartoni recuperati, colori creati con erbe naturali, e la spavalda attitudine a ridisegnare sul retro dei dipinti- eppure visceralmente necessaria, identificata con la pulsione stessa della vita (ma Ghizzardi l’avrebbe resa con un semplice “’am piès!”, mi piace, mi sento bene e vivo), si fa, a ragione, coprotagonista del racconto. L’arte diventa per lui un formidabile strumento di comunicazione con il mondo, di espressione dei propri desideri, dei bisogni, delle speranze, un efficace antidoto alla solitudine, al punto che l’amore non è più sentimento ma “quel prodigio che può essere solo rappresentato”. Da qui l’ossessione del pittore per un femminino dalla fisicità esuberante, dai tratti esasperati, iperrealistici, certamente naif ma densi di umanità. Donne amate o solo ammirate da lontano, ma sempre desiderate come un nutrimento indispensabile.

Tra i maggiori pregi dello spettacolo, quello di aver condotto lentamente e intuitivamente alla scoperta di questo genio artistico, attraverso la proiezione sui muri, lungo il percorso, di cornici luminose vuote, fasci di luce senza immagine all’interno. Incisiva soluzione adottata per consegnare allo spettatore non una riproduzione artefatta dei quadri, ma la possibilità di elaborare una soggettiva interpretazione visiva dei diversi momenti narrativi, di ricercare da solo la volontà d’ispirazione evocata fin dall’inizio. Itinerario disseminato di segni, quindi, che, in una originale forma iconoclastica, hanno portato a un ricongiungimento finale delle individuali suggestioni.

La seconda parte della storia si dipana, infatti, di fronte al pubblico seduto, riunito in platea. Castiglioni veste il tabarro e il cappello di Ghizzardi, ne traduce il pensiero, ne racconta i tanti “mi richordo anchora” (perché così scriveva l’artista i suoni gutturali, anche nelle didascaliche spiegazioni ai lati dei ritratti), ne vivifica l’inesauribile energia, sostenuto anche da un video di repertorio che raffigura il vero Ghizzardi ( immagini proiettate sullo sfondo di una leggera tela di crinolina volta a restituire la bruma dei paesaggi fluviali e l'acqua del Po), e, poco alla volta, ci svela alcuni degli straordinari dipinti. I quadri vengono estratti da quinte laterali e appesi nel perimetro circolare attorno al pubblico, così da permetterne una continua visione, anche nel prosieguo del racconto su cui poggia il senso più profondo del lavoro.

Ammirazione e stupore si confondono in quel momento di autentica, condivisa epifania, componendosi in qualcosa che va ben oltre la semplice esposizione pittorica. “Benvenuti in Casa Ghizzardi” saluta nel finale Castiglioni, richiamando in quel commiato il nome del museo intitolato al pittore e invitando a un applauso che non va più solo all’interessante progetto teatrale congegnato ma alla bellezza carnale, crudele e sanguigna delle opere di un artista contemporaneo tutto da scoprire.

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