La recensione

HALLO! I'M JACKET

CON: Federico Dimitri, Francesco Manenti

REGIA: Elisa Canessa

ASSISTENZA ARTISTICA: Stefano Cenci, Giorgio Rossi

DISEGNO LUCI: Marco Oliani

PRODUZIONE: Compagnia Dimitri/Canessa (co-produzione Artisti Associati Sosta Palmizi)

Tempo sospeso. Luogo mitico. Spazio metafisico dove convergere il potere dell’azione e avvilupparlo in spirali di movimento senza senso (spesso reiterando le gag fino al parossismo), in coreografie bizzarre e dissacratorie, in gesti smaccatamente clowneschi. Una voce fuori campo, demiurgo della composizione teatrale, ci introduce a una questione controversa, che qui si vuole esemplificare svuotandola del suo contenuto, del significato che lo spettatore auspica sempre di trovare: questo è teatro, sì, “sogno, urgenza” ma anche “vertigine verso il vuoto” e quelli che vediamo in scena sono “due performer in relazione con l’atto creativo”. Non c’è altro da comprendere, pare.

Lo spettacolo “Hallo! I’m Jacket! Il gioco del nulla”, presentato in apertura di stagione al Teatro del Cerchio e molto applaudito da un pubblico divertito e partecipe, si anima proprio su quelle illusorie parole chiarificatrici che invitano poi a dettare il tempo all’agire performativo, già scandito dal ritmato, cardiaco, ticchettio del piano sonoro iniziale. I due protagonisti, in tenuta semi-adamitica (addosso solo un costume da bagno), dispiegano così la loro forza fisica e muscolare, più che quella psicologica ed introspettiva, s’impadroniscono spavaldamente dello spazio scenico attraverso lo strumento del corpo: danzano, giocano, manovrano gli oggetti più disparati (bandiere, teli di cellophane, bombolette di schiuma da barba), si sfidano in improbabili gare di nuoto “in scivolata” e costruiscono, con leggerezza e tecnica, situazioni paradossali di autentica comicità.

Si disegna una geometria grottesca di movimenti e soluzioni che vanno dalle esilaranti imitazioni di animali (spunto per biasimare sottilmente il moderno, ossessivo citazionismo che ci fa, in realtà, sentire intellettualmente primitivi e inadeguati), al sincronico schema di entrate ed uscite da un armadio di legno, il perno scenografico attorno cui sviluppare questa danza del “nonsense”. Restano, però, i dubbi. Si apprezza l’indiscussa preparazione dei danzatori-performer ma troppo sfugge ancora alla comprensione di chi guarda.

Ed ecco che una seconda voce esterna arriva in aiuto, a determinare repentinamente un cambio di prospettiva da gettare sul convulso, assurdo vortice di azioni e interazioni. A parlare è quel Jacket del titolo e comunica, non a caso, in inglese, nella lingua oggi universalmente accettata e compresa: “Hallo! I’m Jacket. I’m watching you. I’m sitting here in the dark. I try to follow you but I need help. Don’t leave me alone”. La riflessione che si innesta nel percorso di sguardo si fa più amara, più greve di una consapevolezza che pian piano illumina la surrealtà rappresentata: quei due stralunati e folli personaggi, sbalzati fuori dalla logica, con una espressione idiota ed aliena stampata sul volto, si fanno beffe dell’Uomo Contemporaneo e delle sue tante metodiche insensatezze.

Sono loro stessi caricature di un’umanità piena di contraddizioni irrisolte, “supermarionette” travolti dalla velocità di regole sociali e culturali usa e getta, soffocati da ansie che si traducono performativamente in una coerente rottura delle categorie e delle forme a cui siamo normalmente abituati. Si ingenera una frattura nel ragionamento, ma essere lontani dal senso comune, non vuol dire essere privi di senso. “What are you doing? Everything is funny but… something more classic, please” chiede Jacket, quasi a dar voce ai nostri pensieri. La presa in giro di alcune formule del Teatro contemporaneo è palese ed efficace nella sua irriverenza manifesta: divertentissima l’esibizione di un attore che imita le movenze del cammello, in gara al Festival Internazionale della Performance, dove si avverte che il coach (figura professionale molto discussa in ambito recitativo, oggigiorno) c’è, anche se non si vede.

Una più crudele e caustica ironia abita, invece, altri momenti dello spettacolo e tenta di sollevare domande pesanti. Cosa resta del teatro (e della vita) quando a imperversare ovunque sono i dettami televisivi e mediatici ? Uno stupore divertito, frammisto a un senso di profonda autocritica e lieve sconcerto, pervade la sala quando per un improvviso, allusivo televoto da casa invocato dalla regia, una spettatrice (recitante !) è costretta ad abbandonare letteralmente il teatro !!! Potere della nominata “Magic box”, verrebbe da aggiungere.

E a noi pubblico cosa rimane di uno spettacolo così ardito,rischioso per l’impianto generale ideato in cui si vuole intenzionalmente vanificare la sostanza, il valore semantico e comunicativo ? Ancora una volta è Jacket, ombra dell’uomo comune, a intervenire sul finale e a richiamarci all’ordine di un sentire condiviso, alla possibilità di un Sogno che non si vuol far svanire del tutto, e che anche qui si conserva, seppur timidamente, in un poetico momento conclusivo danzato in penombra, sullo sfondo, da uno degli interpreti .

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