La recensione

LITTORAL

Di Wajidi Mouawad

(traduzione Giulia Pizzimenti)

CON: Davide Gagliardini, Silvia Lamboglia, Luca Nucera, Gian Marco Pellecchia, Giulia Pizzimenti, Massimiliano Sbarsi, Emanuele Vezzoli

REGIA: Vincenzo Picone

PRODUZIONE: Fondazione Teatro Due

Il silenzio, così come la menzogna, è un gioco crudele che può ripetersi ogni giorno, sempre uguale, ma l’enunciazione di una verità è irreversibile. E spesso questa reca con sè una scelta, un’assunzione di responsabilità personale e dolorosa. E’ quanto investe Wilfrid, il giovane protagonista, nonché paradigma narrativo, di “Littoral”, l’opera di Wajidi Mouawad messa in scena per la prima volta in Italia nella nuova produzione di Fondazione Teatro Due, per la regia attenta e sensibile di Vincenzo Picone.

La pièce apre sulla seminudità indifesa di Wilfrid chiamato da un invisibile tribunale a fare i conti con il proprio passato, a riconoscere la propria identità di uomo, senza più filtri o sovrastrutture di sorta, e a rispecchiarla in quella del padre da poco defunto. Tutto ha inizio da quello squillo di telefono e da quelle parole “Buongiorno, venite, vostro padre è morto”, annuncio che sancisce una nuova direzione da intraprendere giocoforza, senza possibilità di delega, senza giustificazione alcuna, ma che s’imprime come un richiamo da cui non ci si può sottrarre, nemmeno per la crudele stravaganza di riceverlo nel momento in cui si compie un atto sessuale colmo di vita.

Su quello scontro palese di forze opposte, di immagini dicotomiche e surreali, di sospensioni e stravolgimenti, vita e morte, sogno e veglia, realtà e fantasia si intrecciano per costruire una trama avvincente, perfettamente assemblata sul piano teatrale, in cui l’elemento tragico classico e una più contemporanea grottesca ironia pulsano in ugual misura, e dove ognuno (in particolare uno spettatore giovane) può facilmente riconoscere tracce del proprio Essere.

Così, se di fronte al simbolico giudice Wilfrid chiede il permesso di ricondurre il cadavere del padre nella terra natia per dargli degna sepoltura, a noi pubblico antistante egli va affidando consapevolmente il valore di un racconto, quello della propria vita, delle ossessioni e dei ricordi che ne costituiscono l’essenza. Una memoria che assume il peso di un conflitto universale eterno, quello tra padri e figli, ma anche di un’atroce guerra civile, quella reale, storica, evocata dalle radici libanesi dell’autore, di cui Wilfrid diventa ineludibilmente l’alter ego drammaturgico.

L’epopea del viaggio si traduce sulla scena attraverso forme sceniche e chiavi registiche che ben sottolineano la dimensione psicologica, intima, di un ritorno alle origini più che altro metaforico, di una peregrinazione che è indagine interiore, conoscenza del proprio Io, prima ancora che percorso di distanze fisiche. Teli bianchi, come sudari, tendono, nella prima parte, a trasfigurare la scena, a sottolinearne l’aspetto onirico, a rendere i diversi piani mentali del protagonista. Così pure i numerosi personaggi che Wilfrid incontra sul proprio cammino di consapevolezza abitano più il suo immaginario, che non lo spazio terreno di una patria innominata ma riconoscibile. Insieme compongono un coro di figure archetipiche, capaci di restituire ampio respiro alla vicenda, nei rimandi continui e sottesi a topoi classici (ritornano Amleto, Edipo, Antigone…).

Ecco, allora, che l’entrata in scena di una improbabile troupe cinematografica diventa funzionale per riconnettere all’attualità, per riflettere sull’incubo comune di non poter trovare la giusta inquadratura della propria vita; l’arrivo degli zii materni, caricature esemplificative di un distorto concetto di famiglia, porta a svelare un terribile (seppur mendace) segreto, in un passaggio ferocemente parodistico; mentre l’impavido e bislacco Cavaliere Guiromelan si fa portavoce ironico dell’epopea cavalleresca (a cui lo stesso Wilfrid vuole ispirarsi, richiamando sul finale anche il Santo Graal) e della forza del Sogno, invocato nell’infanzia e mai abbandonato.

Ma Wilfrid conosce il proprio compito, non può rifiutarsi di “saltare nell’abisso” ed è la presenza del fantasma del padre a metterlo di fronte a quel dovere inevitabile. Come un moderno Enea, Wilfrid carica sulle proprie spalle il cadavere del genitore e si avvia per un tempo e uno spazio altro, epico, dove il senso del viaggio, della colpa, dell’eredità del passato si acutizzano, raggiungendo l’apice nelle storie di ragazzi e ragazze (orfani di un conflitto più grande di quello generazionale) che il protagonista incontra sulla propria strada, e di cui abbraccia la medesima, vitale urgenza di partire (“partire, sì, per capire chi ha ucciso chi, chi ha fatto cosa”, cercare un luogo per la sepoltura perché “un luogo non vale l’altro”).

Nella terra promessa, “sul litorale del grande mare che tutto accoglie”- dove c’è sabbia e non più teli, dove le strutture dell’Uomo (scenograficamente restituite dall’uso di praticabili in legno) non sono più gabbie o nascondigli ma vengono mosse con leggerezza, sospinte lontano, dove Sogno e Morte (il Cavaliere e il padre defunto) danzano insieme, senza accenno di diverbio- i figli cercano i padri e nel seppellirli, conciliandosi in un rito antico e collettivo di purificazione, rinascono alla propria autonomia, diventano padroni del proprio destino, liberi dal peso del passato. Pronti, a loro volta, ad essere Padri.

Il lavoro teatrale del regista Picone ha saputo egregiamente conservare, senza scivolare nella retorica, la potenza e la carica emotiva del testo originale, avvalendosi anche di un eccellente cast di attori, tutti aderenti e puntuali nei cambi drammaturgici, dove però, onore al merito, svettano Gian Marco Pellecchia, un Wilfrid coinvolgente, ingenuo ed audace, Luca Nucera, per la perfetta padronanza di differenti registri interpretativi, e Massimiliano Sbarsi, padre dolcemente malinconico, ombra dolente di grande umanità.

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