La recensione

"MACELLUM": IL BENE E IL MALE IN OGNI UOMO

CON: Titta Ceccano

MUSICHE IN SCENA: Roberto Caetani

REGIA: Julia Borretti

PRODUZIONE: Matutateatro

Stridono lame di coltelli, una contro l’altra, sulla scena ancora buia. Fendono l’aria quei suoni laceranti di affilatura, carichi di presagi angosciosi. L’elemento tragico avanza già su quelle sonorità taglienti che aprono squarci di pensiero ed evocano subito immagini di sangue. Ma le luci rivelano una verità “di mestiere”, prima di confermare la crudeltà della storia: l’artefice di quel rumore è un rude macellaio con tanto di grembiale rinforzato indosso. Un artigiano di professione ma anche della parola, poiché narratore del popolo che vuole raccontare una vicenda epica, remota eppure attuale, leggendaria ma piena di significati, come la concreta, vivida forma dialettale usata per introdurla.

La storia è quella nota degli Orazi e dei Curiazi, della battaglia tra Roma e Albalonga, di cui trattò Tito Livio e, più recentemente, un drammaturgo geniale e scomodo come Heiner Müller nel suo “L’Orazio”. Trae origine proprio da quest’ultimo testo l’interessante lavoro presentato al Teatro del Cerchio dalla compagnia latinense Matutateatro, ossia “Macellum- Il Valzer dell’Orazio”, dove fin dalle prime battute si comprende la logica ispiratrice del titolo vagamente ossimorico. La brutalità della storia, e così pure la sua contestualizzazione letteraria, risiede in quei due nomi latini: il primo, declinato a richiamare il massacro, il secondo a definirne direttamente il protagonista. Al centro, però, sta quel “valzer”, che destabilizza la prospettiva univoca, crea nuovi equilibri interpretativi, suggerendo l’idea della feroce danza macabra che pervaderà la scena, proprio attraverso l’impiego mirato, incisivo e penetrante della musica dal vivo.

Ed è, infatti, l’elemento musicale (egregiamente eseguito dal polistrumentista Roberto Caetani) a massimizzare, unitamente alle visioni regalate dalla potenza espressiva del bravissimo e intenso Titta Ceccano, la forza tragica del racconto. Sulle note energiche ed insistenti della chitarra elettrica poggiano le grevi parole che descrivono la battaglia; il suono improvviso di piatti suggella la maschera tragica dell’atto sanguinario, l’uccisione del Curiazio per mano dell’Orazio ma ancor più l’assassinio inutile della sorella di quest’ultimo, promessa sposa del Curiazio; le vibrazioni sonore del kazoo accompagnano lo strazio della morte innocente, ed è un perturbante “Libiamo né i lieti calici” ad amplificare il dolore di un atto imperdonabile.

La narrazione procede, al pari della musica, in modo implacabile e icastico, ricongiungendosi alla solennità di un mito che muove a riflessioni profonde, fondanti il dibattito perpetuo sulla dicotomia tra bene e male presente in ogni individuo. Su quel ritmo incalzante di parole e musica l’attenzione resta vigile e via via guidata a un ascolto più consapevole e preciso: la dialettica degli opposti si costruisce naturalmente sulla storia, nella discussione che infiamma Roma tra chi vuole onorare l’Orazio come vincitore e chi vuole processarlo come assassino della sorella. Ed essa viene resa con accorgimenti scenografici semplici ma determinanti: il cadavere della donna è un fantoccio di bianco vestito, a riprodurre un sudario immacolato, e così pure è l’Orazio, anch’esso manovrato quale manichino senza più anima dal narratore-burattinaio. Sono simulacri umani, golem antropomorfici che possono contenere più sentimenti, più pulsioni, e personalità, anche nettamente contrastanti, ma che una volta distesi in un simbolico angolo sepolcrale diventano immagine struggente della miseria umana e della sua caducità.

Lo stesso macellaio, cantore del volgo, si fa interprete di quella verità impietosa, assumendo sulla sua fisicità imponente un taglio di luci che ne divide in due la figura, tra parti in ombra e fasci abbaglianti, e reinterpretando, nella perfetta mimica facciale, l’antica maschera tragica dell’attore ellenistico, con occhi sgranati e bocca spalancata (altresì evocando il carattere arcaico ed estremizzato del kabuki).

“Tra l’alloro e la scure” si è tutti sospesi e la vicenda dell’Orazio diventa, quindi, metafora sublime e universale per parlare dell’indivisibilità della persona, delle molteplici inclinazioni che albergano nell’Uomo, capace di essere al tempo stesso eroe e spietato assassino. Ma, nel progredire del racconto, si insinua un nuovo dibattito, altrettanto urgente: quello che verte intorno alla falsificazione del linguaggio e ai rischi di una sofisticazione nominale. Come può e deve essere ricordato un uomo che manifesta apertamente la sua doppia natura ?

La necessità del racconto orale, che è poi quello teatrale, si espleta e si celebra nel suo stesso compimento, nel suo rivelarsi utile alla sopravvivenza di una memoria personale e collettiva che sola può preservare l’integrità e la purezza della parola. “Merito” e “colpa” vanno, dunque, entrambi custoditi in una narrazione che stringe il legame con le origini, che riconnette gestualità, musica e forma linguistica al senso di una tragedia antica. Perché sono le parole a rendere conoscibili o inconoscibili le cose e solo “l’inconoscibilità delle cose è davvero mortale”. Più della spada, può la parola.

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