L'intervista

Le interviste a protagonisti della scena parmigiana (e non solo) a cura di Francesca Ferrari, giornalista e critico teatrale.

ENRICO CASTELLANI: "BABILONIA TEATRI E LA NOSTRA FOTOGRAFIA DEL MONDO"

“Un lavoro che è allo stesso tempo un pugno allo stomaco e una carezza, dotato di una scrittura che scivola leggera ma si attorciglia alle budella, carico di umanità.” Dicono già tanto le poche righe di presentazione che si leggono sul sito della compagnia Babilonia Teatri (www.babiloniateatri.it) a proposito della loro produzione “Pedigree”, che vedremo in scena sabato 3 febbraio, alle 21.00. al Teatro al Parco, per la stagione serale del Teatro delle Briciole. Lo stile teatrale senza filtri, diretto e sferzante, più volte definito dalla critica “pop-rock-punk” che è cifra peculiare nella progettualità della compagnia veneta permea anche questo spettacolo in forma di monologo, di cui interprete protagonista (con Luca Scotton) è proprio Enrico Castellani, il fondatore di Babilonia Teatri insieme a Valeria Raimondi.

Come nasce Babilonia Teatri e come sono cambiate le vostre istanze artistiche dalla fondazione a oggi ? “La compagnia nasce nel 2005 intorno a un progetto sulla guerra in Iraq che si voleva provare a sviluppare a teatro. Del progetto originale non se ne fece nulla ma, da allora, abbiamo iniziato a lavorare occupandoci della realtà, di quello che abbiamo e vediamo attorno a noi, soffermandoci ad indagare soprattutto le criticità dell’oggi e cercando sempre di regalare su questa realtà circostante uno sguardo che fosse al tempo stesso cinico e affettuoso. In particolare, percorriamo una direzione che sia di messa a nudo dei clichè, degli stereotipi comuni, ma lo facciamo sempre senza chiamarcene troppo fuori, senza estraniarci mettendoci in cattedra, ma bensì nella piena coscienza di appartenere a quel mondo di cui vogliamo evidenziare aspetti discutibili. Non ci permettiamo di indicare dove sta il bene e dove il male. Non diamo verità assolute o soluzioni ma cerchiamo di suscitare dubbi, domande, anche attraverso forme di forte impatto visivo. Sul piano delle ispirazioni, il nostro lavoro è sempre rimasto lo stesso. Le forme di realizzazione e di composizione si sono, però, contaminate. Se ripenso a uno dei nostri primi spettacoli che si incentrava sul racconto personale della vita di una donna carcerata, credo che siamo rimasti fedeli a quella volontà di dedicare attenzione all’autenticità del vissuto, sempre concentrandoci sulla ricerca di una lingua artistica che ne fosse degna interprete. Da lì abbiamo iniziato a impegnarci su un linguaggio teatrale corale che concentrasse punti di vista differenti, magari lontani, contrastanti, per poi amplificarli attraverso la nostra voce e le nostre soluzioni creative in un modo quasi iperbolico.”

Tanti i riconoscimenti ufficiali che avete ricevuto, tra cui due UBU e un Leone d’Argento alla Biennale di Venezia nel 2016 per l’Innovazione Teatrale. Ma c’è un lavoro che si può considerare come il più rappresentativo della vostra poetica? “Il primo perché ha rappresentato l’inizio di un percorso artistico importante, ma si tratta di un lavoro poco conosciuto. Tra quelli che, invece, rientrano ormai nel nostro repertorio più noto, ne cito due: “Made in Italy” del 2008 che ci ha segnalato anche all’attenzione della critica e poi il successivo “Pinocchio” dove in scena abbiamo portato ragazzi che hanno vissuto veramente l’esperienza incredibile del risveglio dal coma; sempre per quella spinta a ricercare e a riportare l’ autenticità sulla scena. Il nostro teatro non è altro che la particolare modalità con cui noi proviamo a fotografare il mondo così come lo vediamo.”

Parlando dello spettacolo “Pedigree”, è stato definito un “j’accuse” pop-rock contemporaneo. In che senso? “Anche in questo lavoro abbiamo voluto accostare punti di vista lontani ma veicolandoli attraverso lo stesso personaggio. E si parla di questioni spinose, di temi cruciali della nostra epoca: del rapporto genitori e figli, di genitorialità biologica e di quella di fatto, di diversità. Non c’è la scelta di sviluppare un solo tema, ma proviamo a raccontare la complessità delle relazioni umane sottese a tanti filoni d’indagine. L’atto d’accusa, forse, scaturisce da questo, dal fatto che troppo spesso a tutti noi ci viene chiesto di prendere posizioni nette rispetto ad argomenti molto difficili da circoscrivere. E questo modo di non considerare la molteplicità di prospettive e, quindi, la diversità, è profondamente ingiusto. Il nostro è un appassionato invito a riscoprire una preziosa dialettica di pensiero. Questo è fondamentale per noi: che il pubblico esca da un nostro spettacolo con domande e impressioni che abbiamo condiviso insieme e in ugual misura nell’atto teatrale. Certamente, come tutti, anche noi abbiamo delle opinioni precise su certi temi ma vogliamo rimetterci in discussione e, con grande senso di responsabilità, suscitare un moto nuovo di pensiero in chi ci guarda e ascolta.”

La potenza dei segni è importante al pari della drammaturgia nel vostro teatro. Come avete proceduto per la creazione di “Pedigree”? “Anche qui, come in altri lavori, la parola e l’azione sono spesso separate in modo netto. In “Pedigree” c’è una storia che viene raccontata, quella di un giovane uomo, della sua famiglia con due madri, del padre donatore e dei suoi fratelli biologici sparsi per il mondo, ma dall’altra parte ci sono immagini che evocano una realtà che la parola non descrive, e che sono complementari alla parola stessa. Quello che serve per far deflagrare contraddizioni e domande”.

Diceva della molteplicità dei temi che questo lavoro riesce a toccare, conducendo anche più lontano, raccontando della crisi d’identità e di coscienza che investe le nuove generazioni. Esiste un pubblico ideale per questo spettacolo? “E’ vero che lo spettacolo prova a interrogarsi sulle radici e sulle nuove identità, temi di cui di certo i giovani si sentono maggiormente investiti, per quel loro bisogno di intraprendere una simile ricerca interiore, ma è anche vero che lo spettacolo è per tutti coloro che vogliono lasciarsi “coinvolgere” e “sconvolgere” da domande scomode”.

“Un teatro specchio della società in cui vive” è un po’ l’idea manifesto della vostra arte. Ma la società vuole, a parer vostro, ancora specchiarsi e ritrovarsi nella dimensione teatrale? “Io credo che provare a costruire un luogo di incontro, di motore dialettico, in una società sempre più individualista, come è purtroppo la nostra, sia l’unica possibilità per noi e così pure per il Teatro tutto, affinchè non diventi qualcosa di marginale alla vita di una comunità. E’ necessario, però, che il Teatro muova alla riflessione. E’ giusto che esistano anche forme teatrali di puro intrattenimento, ma l’importanza storica del Teatro risiede nello scambio di pensieri e, soprattutto, interrogativi.”

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