La recensione

"Una Bestia sulla Luna": storia di amore e resilienza

DI Richard Kalinoski (traduzione Beppe Chierici)

CON: Elisabetta Pozzi, Fulvio Pepe, Alberto Mancioppi, Luigi Bignone

REGIA: Andrea Chiodi

PRODUZIONE: Centro Teatrale Bresciano - Fondazione Teatro Due

E’ un approccio drammaturgico induttivo quello che, attraverso un gradiente di emozioni, conduce dal particolare di un racconto familiare, al generale di una immane tragedia storica. Una vita solitaria, quella di Aram Tomasian, emigrato armeno in America, che diventa storia a due, quando sposa per procura l’orfana Seta, per poi, grazie a un miracolo d’amore e accoglienza, comporsi in famiglia all’arrivo del giovane vagabondo Vincenzo. Sullo sfondo di questo intrecciarsi di relazioni e nuove dinamiche affettive, resta, però, vivido e atroce il carico dei ricordi personali di ognuno, di radici spezzate, delle famiglie dei due sposi trucidate per mano dei Turchi durante il genocidio armeno.

E’ una storia intrisa di sangue e morte che emerge dal passato ma che volge a una idea di speranza e salvezza proiettata nel futuro, a una resilienza individuale sublimata nell’universale, questo importante testo del drammaturgo americano Richard Kalinoski, dal titolo “Una bestia sulla luna”, prodotto, per la versione italiana tradotta da Beppe Chierici e diretta da Andrea Chiodi, da Centro Teatrale Bresciano e Fondazione Teatro Due. Ed è nella caratterizzazione dei personaggi, nella loro umanissima interazione che prende corpo e voce quella graduale, positiva visione della vita, quell’apertura al prossimo e al futuro, malgrado le terribili vicende del loro vissuto. O forse proprio per quelle, divenuti più forti nel desiderio di tutelare una memoria, quella armena, che l’idiozia di un popolo ostile ha tentato di cancellare, più determinati nel ricostruire una propria identità, raccogliendo i frammenti di una infanzia violata che mai li abbandona (nelle letture di passi della Bibbia che Aram ripete a voce alta, rivedendo il padre e lui bambino, nel cappotto del genitore che lui conserva con cura e devozione e in quella bambola di pezza che Seta stringe al petto e a cui cucirà nuovi vestiti).

La vicenda matrimoniale si dipana partendo da queste premesse individuali complesse e tormentate, inizialmente solo evocate, e poi enunciate in tutta la loro drammaticità. Ma ad introdurla come un viaggio à rebours raccolto nello spazio scenico che è il luogo domestico e semplice di casa Tomasian, è proprio colui che verrà adottato dai due sposi, quel Vincenzo che il pubblico conoscerà ragazzo nella seconda parte (il giovane e intenso Luigi Bignone), e che in età matura (ruolo incarnato da Alberto Mancioppi), in questa sorta di prologo iniziale, si presenta come il loro più leale e autentico testimone.

Da quel momento, iniziamo a vivere la storia in prima persona di Aram e Seta, interpretati da due attori sinceri ed appassionati come Fulvio Pepe ed Elisabetta Pozzi, capaci di regalare una gamma infinita di sfumature psicologiche ed emozionali, intessute sul ritmo acceso dei dialoghi, a tratti venati di amara ironia, cucite sui silenzi improvvisi e sofferti dei protagonisti, sui dolori ora sommersi ora affioranti in superficie, su accelerazioni naturali e ritrosie di chi non ha ancora imparato a conoscersi e ad amare. Di chi, soprattutto, ha vissuto traumi indelebili sulla propria pelle e ancora non sa come superarli.

Così, non stupisce se la frase che Seta ripete più convintamente al momento del loro incontro è “sono scioccata!” per ringraziare Aram di averla salvata, sorridendo poi alla scoperta che, in realtà, la foto della moglie scelta per procura non è la propria ma quella di una ragazza morta durante il massacro armeno. “Ma la vita non segue nessun piano” ricorda Seta e la fotografia, quale riproduzione della vita, celebrazione visiva delle tappe importanti e degli ideali sociali (“Aram voleva scoprire l’immagine del vero americano nelle foto”, cita una battuta del testo) rivela da subito il suo significato simbolico e, al tempo stesso, straniante, ergendosi ad espediente narrativo derminante nell’innescare cortocircuiti emotivi, nel minare certezze e punti di vista, nel convergere l’attenzione verso le sole verità esistenti e riconoscibili: quella dell’Amore e quella tragica della Storia.

“La foto è il documento ideale” dice Aram, dimenticando di come sia stato ingannato, seppur in buonafede, proprio dal ritratto di una donna che non è la sua sposa; e così pure l’inquietante immagine della sua famiglia d’origine sterminata durante il genocidio, con ogni membro raffigurato senza testa, assurge a rappresentazione iconografica sacra di un dolore immutabile e profondissimo che, però, non è possibile immortalare, né descrivere, né condividere appieno poichè troppo crudele, intimo e proprio per questo, fonte di conflitto e incomprensione tra i due coniugi. Le grandi fotografie non possono incorniciare i ricordi, che vivono nella testa, nel cuore e che solo la memoria, anche la più sofferta, preserva e tramanda da un padre a un figlio (sia questo biologico o adottivo) sempre nel nome di quell’amore che sa vincere sulla violenza e sull’oblio.

“Una bestia sulla luna” è molto più di una pièce dei sentimenti e non è solo un’opera teatrale sull’olocausto armeno: è un lavoro di fine bellezza ed equilibrio che apre alla riscoperta di un “che di lontano” (cronologicamente, geograficamente o, forse, solo umanamente) che, tuttavia, ci appartiene.

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