La recensione

"LA CLASSE OPERAIA VA IN PARADISO" E LA SUA RADICE UMANA

DRAMMATURGIA: Paolo di Paolo

CON: Donatella Allegro, Nicola Bortolotti, Michele Dell’Utri, Simone Francia, Lino Guanciale, Diana Manea, Eugenio Papalia, Franca Penone, Simone Tangolo, Filippo Zattini

REGIA: Claudio Longhi

PRODUZIONE: ERT Emilia Romagna Teatro Fondazione

 

S’ispira sempre apertamente al lucido, e solo in apparenza contraddittorio, principio d’impronta brechtiana “creare un’arte che sia al contempo accessibile e difficile”, la nuova maestosa produzione di Ert Emilia Romagna Teatro Fondazione, “La classe operaia va in paradiso”, prima regia di Claudio Longhi dopo la nomina a direttore del teatro. E lo fa stavolta attingendo ad un’opera cinematografica significativa ma controversa: quell’omonimo film di Elio Petri entrato di diritto nella memoria collettiva del nostro paese (e non solo) anche grazie alla superba interpretazione del suo protagonista, Gian Maria Volontè, ma che all’uscita nelle sale, nel 1971, scatenò una forte ondata di polemiche tra le categorie sociali là rappresentate quale contraltare di una disumanizzata classe proletaria.

Quella vista al Teatro Storchi di Modena non si è composta, tuttavia, in una semplice trasposizione teatrale del celebre film, nè in una operazione amarcord sul complesso periodo post-sessanttottino contestualizzante la genesi e la ricezione della pellicola. Partendo da una ambiziosa ma intelligente intuizione dell’attore Lino Guanciale, qui anche interprete nel ruolo che fu di Volontè, il regista Longhi si è affidato alla penna drammaturgica accorta e sensibile del romanziere Paolo di Paolo, come già nel precedente “Istruzioni per non morire in pace”, per creare un lavoro articolato, capace di spingere con energia e convinzione in una direzione radicata nel Presente.

Lo spettacolo riaccende, infatti, l’attenzione sulle problematiche contemporanee del mondo del lavoro, richiamandosi per l’appunto al momento storico della loro più netta insorgenza e facendo leva sull’ estremizzazione quasi grottesca, iperbolica, delle istanze sociali data dalla lettura cinematografica, ma apre poi consapevolmente (nel pieno rispetto della cifra registica propria di Longhi, di dichiarata matrice ronconiana) a una più ampia e tragica prospettiva d’indagine: quella legata alla perdita di una moderna coscienza civile, alla inesorabile scomparsa di un impegno politico, e ancor più intellettuale, che ha investito il nostro tempo e che, al contrario, animava e appassionava (pur traducendosi talvolta in proclami idelogici e utopie rivoluzionarie contestabili) il substrato sociale dei primissimi anni ’70.

Una scrittura drammaturgica stratificata ma nitida e una persuasiva ibridazione di linguaggi espressivi (con immagini dell’epoca, frammenti, colonna sonora e passaggi compositivi del film originale, nonché musiche dal vivo eseguite dal polistrumentista Filippo Zattini, ben interpolati nella forma testuale e performativa) evidenziano eloquentemente la carica profetica del film cui s’intende volgere lo sguardo, suggerendo, tra sostanziali analogie, profonde differenze e apodittiche conseguenze consegnate alla Storia di questi ultimi decenni, un ragionato eppur emozionale confronto tra il mondo di allora, personificato dall’operaio Lulù Massa, e quello attuale.

Ed è proprio su una dimensione “professionale”, espressa nella sua essenza universale e imperitura, che si svela la messinscena: dal prologo audio recitato in greco da Aglaia Pappas, ai tempi moderni di una veloce catena di montaggio dove qualifiche, ruoli, anni, provenienze geografiche si confondono e si fondono in un magma di esistenze macinate dal lavoro. Il passaggio è frenetico, perturbante, svelto nel condurci al fulcro narrativo dello spettacolo e al senso da cui trae linfa: la vicenda raccontata sul grande schermo, come è nata, su quali idee si è fondata, e come è stata accolta.

Ne emerge anche sul piano teatrale, come fu per quello cinematografico, un intreccio di relazioni e interazioni da grande affresco popolare, in cui è facile rispecchiare le dinamiche del nostro tempo, riscoprire il senso e il valore di un racconto che ci appartiene e le cui sequenze chiave, non a caso, sono introdotte con tono quasi leggendario da un elemento didascalico in azione, un moderno menestrello con chitarra in spalla (il bravissimo e coinvolgente Simone Tangolo). “Oggi siamo liberi. La storia delle rivoluzioni è finita” va cantando ma allora è naturale chiedersi: perché ? Cosa ne è stato di quello spirito di rivolta? Se poco, o nulla, è cambiato dalla vita di fabbrica descritta nel film a quella di oggi ricordata a teatro, dove è finita la coscienza di classe, la militanza attiva che infiammava le strade e i cancelli davanti agli stabilimenti ? Cosa ci ha distratti in questi anni e allontanati dalla capacità di mantenere viva la consapevolezza, come la volontà di lottare per i propri diritti?

Lo spettacolo ci conduce- forse protraendosi per una durata complessiva troppo lunga che si poteva risolvere limando quei momenti drammaturgici a tratti percepiti più declamatori, esegetici e didattici - a queste domande spinose e prova a suggerire risposte, creando legami, concertando riferimenti storici, letterari, pubblicitari, stabilendo connessioni visive, emozionali, sonore tra il prima e il dopo, tra finzione e realtà. Ritroviamo, così, vivificati i dialoghi costruttivi tra il regista Petri e lo sceneggiatore Ugo Pirro, l’analisi di intenzioni e prospettive mutuate nella realizzazione di un film che fosse popolare e non politico, rivoluzionario ma non neorealista, “un film che diverta facendo meditare” (proprio come accade nel “buon teatro” ….); ma abbiamo anche il sindacalista e lo studente che s’interrogano, con megafono alla mano, sull’ideologia, sull’urgenza del dibattito e della partecipazione, i ragazzi di quegli anni all’uscita del cinema, la gioventù di oggi con vecchi dubbi e nuove domande.

E rivediamo i personaggi del film: l’operaia Adalgisa, la parrucchiera Lidia, il cronometrista della fabbrica, la follia profetica del Militina, una coralità di contributi emotivi e concettuali, che ruotano, però, attorno al perno simbolico del protagonista Lulù Massa, interpretato da uno straordinario Lino Guanciale. Un Lulù dei giorni nostri, che s’imprime nell’anima con la stessa prepotenza del suo predecessore, ne introietta la maschera ma svicolando dalla mimesi, ne subisce le medesime dolorose vicissitudini (la perdita del dito sul lavoro), ma disegna un suo personale tracciato caratteriale e comunicativo: è un uomo-macchina, consapevole di esserlo, quasi fiero del suo stato di campione dello stakanovismo moderno. Irrimediabilmente alienato come il Lulù del film, ma più arrabbiato, più graffiato anche nella vocalità (sempre declinata nell’accento lombardo, ma alternata a parti scevre da inflessioni regionali), attraversato da una crudeltà sottile e una disillusa cattiveria che ne fa portavoce sublimato di un comune e sotterraneo sentire attuale.

Ad abbracciare la sua storia e la molteplicità di rapporti comprimari, un impianto scenografico sontuoso, ricco di praticabili- sviluppato in geometrie orizzontali, verticali, diagonali, spazio visivo perimetrato da schermi quadrati che richiamano reparti di fabbrica e comparti mentali, oltre che prospettici, e al cui centro resta sempre attivo e presente il nastro trasportatore che muove cose e persone- che, tuttavia, aumenta solo parzialmente il contenuto emotivo e il portato psicologico del lavoro, amplificato, invece, dal grandissimo valore attoriale di tutti gli interpreti in campo (tra cui spiccano, oltre i già citati Tangolo e Guanciale, la sempre brava Diana Manea nel ruolo di Lidia e una commovente Franca Penone in quello del Militina), nonchè dalla densità delle tematiche toccate.

Ma allora, se “l’operaio è la radice umana e ci rappresenta tutti”, come dichiara il Petri teatrale, e a quella storia approssimiamo l’obiettivo, pur conservando una giusta distanza di sguardo data dal nostro tempo, dove troviamo oggi il paradiso evocato con disincantata amarezza dal titolo? Quella nebbia descritta nel sogno conclusivo di Lulù pare, dunque, solo il presagio di una follia che si è, infine, tradotta in un destino reale di assuefazione alle comodità, ai beni di consumo (e difatti il paziente del manicomio è qui rappresentato come un automa intontito dai motivetti del Carosello), in cui non possiamo non riconoscere l’alienazione dell’Uomo Contemporaneo, ben oltre quella di una classe sociale d'appartenenza.

Perlopiù inconsapevoli di ciò che è stato e disattenti alla nostra attualità, dormiamo beati, come ci ricorda il bel momento cantato in coro che anticipa il finale, e forse, davvero, quel paradiso ideale, a cui si va poi richiamando, non può che essere occupato “a testate”. Metaforiche, più che reali, dove memoria, coscienza, ragione e sentimento possano risvegliarsi e congiungersi. Anche tra i tanti applausi di un felice momento di teatro.             

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