La recensione

"LA MITE" e la tragedia del silenzio

CON: Clelia Cicero, Daniele Cavone Felicioni

REGIA: Cèsar Brie

PRODUZIONE: Teatro Presente

 

Raro ormai è trovare esempi di un teatro che sia pura poesia. Piccole opere di raffinatezza espressiva ed eleganza drammaturgica che, pur condensate in un tempo breve di esecuzione e con pochi elementi scenografici da supporto, sappiano irradiare un’infinità di evocazioni e suggestioni visive ed emozionali.

Questa grazia compositiva e performativa sempre più insolita oggigiorno ha contraddistinto il lavoro del regista argentino Cèsar Brie, “La mite”, spettacolo tratto dal racconto di Dostoevskij e presentato al Teatro del Cerchio davanti a un folto pubblico visibilmente emozionato. Storia umana intensa e sofferta, ispirata da un fatto di cronaca vera, questa di una giovane donna che decide di suicidarsi “per paura di un amore”, come lascerà trapelare il testo nel finale. Paura dell’amore di un uomo mai del tutto corrisposto, da lei prima subito, poi accettato e infine disperatamente cercato, ma che rimane irrimediabilmente lontano da lei, capace di salvarla da una vita di miseria e indigenze, ma non dal male di una disperata e insanabile solitudine.

La struttura drammaturgica tesse le fila di un dialogo surreale, onirico e psicologico, tra il marito- interpretato da un solido e convincente Daniele Cavone Felicioni- costernato da quella morte improvvisa, nonchè dalla tardiva consapevolezza di aver mancato come sposo e come essere umano, e la memoria della moglie morta, che qui si fa presenza eterea nella voce e nel corpo della brava e armoniosa Clelia Cicero. Il monologo letterario dell’uomo prende così la forma di un immaginario racconto a due, forse frutto di un delirio febbrile, che va a disvelare la storia del loro incontro, ma ancor più l’incomunicabilità che ha condotto alla sciagura familiare, l’irrequietezza e la desolazione affettiva in cui entrambi da sempre si sono costretti.

E’ un momento di veglia funebre quello che apre lo spettacolo, ma sul tavolo–bara giace un fantoccio della defunta (una precisa riproduzione ad opera di Tiziano Fario), un doppio teatrale che rappresenta la parte materica e svuotata di anima, di contro all’essenza spirituale ed emotiva del personaggio impersonificata dalla Cicero. Da subito, tra le figure incarnate dai due attori s’intreccia un’aggraziata eppure potente interazione dei movimenti: assonanze e disequilibri, tensioni e abbracci, slanci e abbandoni, visibili nei continui passaggi fisici, ma anche sotterranei, percepibili soltanto nei pensieri e nelle immagini restituite da quella precisa e tersa coreografia di parole e gesti, anche minimi.

I ricordi dell’uomo e così i suoi sensi di colpa si espletano anche attraverso la corporeità e la vocalità di lei e, infine, deflagrano su una scena povera, costruita nella sua concreta essenzialità, che apre, però, idealmente nei pochi oggetti e nello scarno mobilio impiegato, un nuovo straordinario ventaglio di azioni e creazioni performative, abilmente governate dai due interpreti: tratteggiando veri e propri quadri visivi della loro relazione in vita, dilatando e moltiplicando sensazioni, passioni, lacerazioni, e conducendo a un più vasto immaginario umano del sentimento.

Domina però, e pervade la struttura drammaturgica, il senso di un forte presagio di sciagura racchiuso nelle penombre di un disegno luci misurato, nel richiamo inquietante e costante al Presente di morte della scena iniziale (con il fantoccio sempre visibile ai lati della scena), nella solitudine di due esseri che, pur toccandosi o solo sfiorandosi, restano indifesi nell’incapacità di comunicare e raccontarsi autenticamente. “Severità è la mia prima regola” dice l’uomo in una battuta chiave, ed è a quella severità e al silenzio (“Non mi raccontò mai nulla” rivela lei con voce sommessa) che si piega la possibilità di un amore sincero e di una reale riscossa emotiva, umana e sociale.

Tra un passato di lontananza e mancata condivisione e un presente di morte e rovina, cosa resta dunque ? Le persone buone e miti, come la protagonista, hanno paura di ferire e, talvolta, scelgono come unica via di libertà e salvezza da una esistenza priva della ricchezza del dialogo e del confronto, quella di uccidersi. Sull’assito le monete del marito usuraio risuonano così di un rumore ancora più lancinante, acuto e freddo poiché accompagnano la confessione, e con questa la presa di coscienza, del vuoto incolmabile per ciò che già si è consumato, della pena di uomo che può solo attendere il domani dove vedrà portar via il cadavere della moglie. Nel canto finale di lei, una nenia di strofe sofferte ma consapevoli, il congedo dalla vita ma anche da noi pubblico, dal mondo che ascolta la sua storia e che può trarne un esempio perché quel dolore non sia del tutto vano.

Uno spettacolo che, come uno scrigno prezioso di fine manifattura (e ben si riconosce il pregio e la cura di una artigianalità teatrale), custodisce il significato e il mistero, volutamente non del tutto sondato, di un sacrificio femminile, così come la tragedia umana che scaturisce dall’assenza di relazione, intesa come incontro, confronto e dialogo. Una sincera commozione e una sorprendente comprensione restano a chi può ammirare il contenuto del suo accurato intarsio.  

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