La recensione

"MIO EROE": UN ATTO D'AMORE CONTRO LA LOGICA GUERRESCA

DI e CON Giuliana Musso

PRODUZIONE: La Corte Ospitale

 

Giuliana Musso è una di quelle attrici per cui è quasi riduttivo parlare di “interpretazione”. Sul palco, la generosità in empatia e umanità che sprigiona dai suoi racconti, l’autenticità e la partecipazione con cui vive in prima persona, e fa rivivere al pubblico, le sue testimonianze- storie reali, stralci di biografie raccolte in quello spirito di verità che mira a realizzare, per sua stessa intenzione, una sorta di “giornalismo teatrale”- sono a dir poco stupefacenti. Nei suoi lavori la parola diventa dono, materia concreta, limpida e riconoscibile per cui emozionarsi, ricordare, commuoversi, sorridere, ma ancor più ragionare, pensare, connettere, relazionarsi, andando oltre il semplice ascolto.

Di questo suo non comune talento comunicativo ed espressivo, affinato da una tecnica adamantina e un rigoroso impegno professionale, si è avuto prova egregia sabato scorso al Teatro al Parco, dove l’intensa attrice-autrice veneta ha presentato una delle sue drammaturgie più applaudite, “Mio eroe”, lucido e toccante monologo sulla insensantezza della guerra.

Partendo dalle note biografiche di alcuni dei 53 militari italiani caduti in terra d’Afghanistan durante la lunga e inutile missione umanitaria ISAF, protrattasi per quasi 14 anni, la Musso ha costruito un emozionante e vivo racconto a tre voci, quelle delle madri di tre giovani soldati uccisi. Donne diverse per estrazione, carattere, attitudine, gestualità, accomunate da un dolore inconsolabile per tutte identico, anche se attraversato secondo i differenti punti di vista. In una “Valle delle Rose” riprodotta sulla scena- con un tappeto d’erba e fiori di plastica e carta- a ricordare l’omonima ma assai meno pacifica valle dove stanziavano i militari italiani, si avvicendano i ricordi personali di quelle donne e dei loro figli, affiorando dalla tragedia di un tempo più recente e condiviso. Ognuna di loro rievoca con estrema delicatezza e cura quasi ieratica i momenti felici legati all’infanzia e alla giovinezza del proprio figlio, del “proprio eroe” morto senza una ragione apparente, ma consegna l’esperienza del rapporto materno a una narrazione intrisa di una lancinante, seppur composta, sofferenza.

Quelle donne riflettono attraverso un atto d’amore che attinge alla memoria della vita. Ragionano sul loro passato, sul dramma che le ha colpite, sulla morte di quei giovani poco più che ventenni ritornati a casa in un feretro coperto dal tricolore, e di cui loro sanno di recare in voce, pensiero e corpo il testamento più vero. Accennano lacrime, ma velatamente, sommessamente, pacatamente, quasi con pudore, perché non è l’immagine pietistica di una madre a lutto che si vuole dipingere, ma piuttosto quella di un essere umano capace di interrogarsi razionalmente anche nel momento del più immenso dolore.

“Piangere fa capire le cose”, ed è questa idea che preme il cuore e muove la testa per tentare di comprendere e introiettare ciò che, di primo acchito, non può che risultare inamissibile, provare a superare la pietà infinita che si arriva a sentire davanti ai giovani in divisa, cercare una risposta alla domanda più essenziale e fondante “per cosa è morto il proprio figlio?”, individuare responsabilità e colpe. La devozione di queste madri che la Musso incarna con rispetto, discrezione e necessaria benevolenza è quella verso i giovani alpini Mauro, Stefano, Micky, ma anche quella collettiva verso tutti i figli morti in guerre ingiuste di cui nessuno sa quasi più ricordare il reale nemico.

Il forte e universale valore etico e politico dello spettacolo emerge dalle riflessioni espresse, nonchè da quelle rimaste latenti, intime, percepibili come fiumi carsici di emozioni e sensazioni che scorrono negli interstizi delle pause, nelle pieghe di parole spezzate da improvvisi moti di rabbia o commozione, nelle frasi grevi, importanti, enunciate consapevolmente e poi lasciate cadere, quasi fossero troppo pesanti da sostenere. Frasi come “Dio è un mistero e si nasconde tra le persone”, “la guerra è una scelta, non è natura”, “la Storia è una lunga sequenza di guerre” (e allora tanto vale sedersi sui volumi delle enciclopedie che ne raccontano l' assodata cultura della morte), “male assoluto e bene assoluto non esistono e non esistono gli eroi” traducono nel linguaggio genuino delle madri, nella loro espressività verace (toccata da inflessioni dialettali che sanno davvero abbracciare) una intrinseca potenza che moltiplica la portata emotiva e di significato civile.

Ora in modo quasi distaccato e incredulo, ora con tono più afflitto e accorato, le singole individualità (la madre apparentemente rassegnata, quella più arrabbiata e quella più tormentata e inquieta) convergono simbolicamente, nel flusso di un racconto che afferra l'attenzione con presa tenace, a una trinità femminile onnicomprensiva, coraggiosa e indomita, che non vuole piegarsi all’irragionevole ed eterna logica della guerra, né ai falsi miti della retorica militaristica.

Restano aperti gli interrogativi profondi, le riserve, i dubbi su quelle morti inaccettabili e sulle ragioni di una missione di pace tramutatasi in guerra. E risuona con forza più acuta e sofferta, insieme alle note struggenti degli strumenti ad arco che fanno materialmente il loro ingresso nel finale (con una viola e un violoncello deposti accuratamente sul palco, quasi ad accennare forme e dimensioni di una madre e del suo piccolo), quel valore sacro e assoluto della vita umana che reclama la propria verità, contro ogni ideologia guerresca o assurda ragion di Stato.

L’altare della Patria cede dunque il passo all’altare della Vita e dell’Amore: luogo di quiete ma non di acquiescenza, spazio emozionale ed intellettivo, tempo raccolto e denso in cui raccontare e denunciare attraverso il sentimento testardo e determinato, ma più nobile e puro della Madre, generatrice di Vita, la tragica follia della guerra.

Meritatissimo lo scroscio di applausi da parte di un pubblico visibilmente commosso e grato.

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