La recensione

IL MOTO DEL RICORDO NE "LA VITA FERMA" di Lucia Calamaro

SCRITTO E DIRETTO da Lucia Calamaro

CON: Riccardo Goretti, Alice Redini, Simona Senzacqua

PRODUZIONE: Sardegna Teatro 

Solo un artista del calibro di Lucia Calamaro poteva riuscire nell’ardua impresa di raccontare il tema tragico e doloroso della morte e dell’elaborazione del lutto attraverso una scrittura drammaturgica che fosse magniloquente, solida, precisa e, al tempo stesso, intrisa di ironia, giocoso iperrealismo e familiare colloquialità.

Al centro del lodevole lavoro teatrale “La vita ferma”, molto applaudito al Teatro al Parco da tanti spettatori emozionati, resta la parola, e il pensiero sotteso che scorre nei dialoghi, stretti, compiuti, puntuali, come un flusso ininterotto di più coscienze concatenate, utile ad aprire squarci emozionali e intellettuali sul senso del ricordo, sul dolore della perdita e sulla ineluttabile impotenza umana di fronte alla scomparsa di una persona cara. “Un dramma di pensiero”, come lo ha chiamato la stessa Calamaro, diviso in tre atti di grande incisività, che traggono materia emotiva e pregnanza linguistica da un’esperienza comunemente riconoscibile: la morte di una madre. In scena permane la sua presenza fisica, e ad essa, o meglio al suo ricordo vivido e pertinace, si relazionano gli altri due protagonisti di questa triangolazione affettiva e dialogica, il marito e la figlia.

Lo spettacolo segna subito, all’apertura di un sipario ideale, quell’ampiezza di respiro che sospinge oltre la storia particolare e che si riflette non solo nel testo, densissimo di significati e valore, ma così anche nella scenografia, costruita sulla spaziosità e sui vuoti: pulita, elegante, chiara, sublimata come a voler illuminare simbolicamente l’universalità di una riflessione a cui tutti, prima o poi, veniamo condotti. Propri del commiato dalla vita terrena restano, invece, materialmente i cartoni dove verranno imballati oggetti e libri, nel preparativo di un trasloco imminente in una casa dove poter ricominciare a vivere, forse per dimenticare chi non c’è più.

A confermarlo è la voce fuori campo che, in prima battuta, enuncia una descrizione quasi scientifica dell’elaborazione del lutto, quale “processo necessario alla salvaguardia dei vivi”. Ed è qui, nell’alveo tracciato da questa inconfutabile asserzione, che si incunea una più profonda riflessione affidata al dialogo intimo, improbabile ma veritiero, tra chi muore e chi resta, tra la moglie defunta, ancora reale nelle sue manie e fragilità, e il marito, sempre prodigo di attenzioni, anche quando sarcastico e finemente provocatorio.

“Ma tu mi dimenticherai?” chiede la donna, anticipando la potenza di quel “ricordare è resistere” che scaturisce subito dopo dalla giusta prossemica dei corpi e delle parole, profuse e sfumate in un equilibrio di perfetta consonanza o amorevole dissonanza. “Non idealizzarmi da morta” continua lei, richiamando in scena, attraverso l’intelligente e sottile ironia della costruzione drammaturgica, il divertente flashback del loro primo incontro. Ciò che basta e più conta è essere ricordati oltre lo strappo, oltre il buco lasciato nella realtà corporea.“La memoria si organizza per arcipelaghi separati dagli abissi” ed è in quegli abissi che chi muore non può affondare, anche se il ricordo sbiadisce o l’immagine lasciata via via non riflette più la persona che si era in vita.

In quel profluvio di pensieri, ragionamenti, confronti (alcuni orientati a coinvolgere direttamente il pubblico delle prime file) e considerazioni, manifeste o solo suggerite (e che anche nei passaggi apparentemente più verbosi e ridondanti, restano sempre accese e ardenti umanità) si concentra il pathos dello spettacolo e vanno a stratificarsi i piani semantici, così come quelli simbolici; quest’ultimi visivamente legati soprattutto alle cromie floreali degli abiti della madre, delle sedie colorate nella sala d’attesa dello studio medico o delle sagome sepolcrali del finale, ma anche agli oggetti che, a turno, vengono intenzionalmente lanciati a terra, quasi a scolpire con un gesto-segno ogni singolo atto dell’esistenza (le biglie della giovinezza nel primo, le medicine della malattia di lei nel secondo, le liquirizie offerte dal padre alla figlia durante la visita al cimitero, nel terzo).

Non è più tempo per piangere (se non quando a farlo è la figlia ancora bambina), mentre chi è morto si pente persino di aver avuto in vita il gusto per le storie televisive tristi (“Piangere senza soffrire è immorale”); da quel momento di abbandono supremo, il ricongiungimento resta possibile solo nel moto dato dall’azione del ricordo, controcanto di un presente fermo, di un tempo di vivere che cerca confusamente di recuperare nella ritualità della preghiera su una tomba perduta la sua ragion d’essere e la sua forza.

Portentosi i tre interpreti Riccardo Goretti, Simona Senzacqua e Alice Redini, che in quasi tre ore di spettacolo hanno avvinto l’attenzione e la commozione del pubblico, forgiando a loro volta, con la misurata gestualità, con i piccoli accenni di danza, l’espressività sincera e non artificiosa e con la non comune abilità nel governare le infinite nuance del linguaggio, una scrittura teatrale dall’autentico pregio letterario.                  

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