La recensione

"LE MAL DU SIECLE" : sgomento e delitto di una identità repressa

Da “Woyzeck” di Büchner

CON: Mario Aroldi, Gabriella Carrozza

REGIA: Mario Mascitelli

PRODUZIONE: Teatro del Cerchio

Lo sgomento dell’identità repressa. L’angoscia della maschera indossata per convenzione e norma. La comprensione della propria natura che conduce alla follia e al gesto estremo. “Le mal du siècle”, di cui al titolo del ben riuscito primo studio attorno al Woyzeck di Büchner messo in scena da Mario Mascitelli (qui autore di una temeraria ma efficace riscrittura drammaturgica, oltre che regista attento) è denominazione per indicare una più complessa e profonda pluralità di stati d’animo inespressi, ossessioni private e incubi individuali, riconducibili non solo alla condizione depressiva ma alla radicalizzazione di alcuni pregiudizi nel contesto sociale.

Il Franz Woyzeck dell’incompiuto testo originale ispira, infatti, una figura maschile oltremodo dilaniata nel proprio Essere, chiamata a combattere la lotta più difficile, quella tra “dovere” e “vivere”, convocata per una scelta che si rivelerà troppo ardua e pericolosa per non sfociare in tragedia: amare liberamente e in piena luce, contro l’ombra e il costume di ogni finta regola morale o di comportamento, il commilitone Andres. La scissione, tutta d'impronta büchneriana, tra essere col mondo ed essere con la natura, cioè con qualcosa che è inconciliabile con il mondo governato da una moralità coercitiva, da un timor religioso opprimente, da relazioni sentimentali e amicali ipocrite, viene sancita sul piano formale, stilistico e performativo, decretando il merito dell’operazione teatrale così congegnata.

E’, infatti, su quello strappo, nella ferita che Woyzeck vive su di sé, nella propria mente e nella fisicità spogliata, nei suoi pensieri e ricordi, contrassegnati dall’atto omicida inflitto alla compagna Marie (momento originario e conclusivo dell’indagine teatrale) che scava il lavoro di Mascitelli, reggendosi su passaggi sonori perturbanti ed evocativi, ma, soprattutto, avvalendosi di suggestive contaminazioni video e brevi filmati, secondo una finalità comunicativa più contemporanea, multimediale e metalinguistica.

Ma siamo pur sempre a teatro. Spazio deputato all’espressione dell’umanità, dei corpi, delle vocalità, dei gesti qui interpretati con aderenza e passione dai bravi Mario Aroldi (Woyzeck) e Gabriella Carrozza (Marie), ognuno immerso nel proprio magma funesto e incandescente di pensieri e sensazioni; estranei uno all’altra- lui vive nel presente, lei agisce nel ricordo di lui, prima del delitto, dietro al velatino che farà da schermo alle immagini- eppure indissolubilmente legati, antitetici o riflettenti come corpi in uno specchio, distinti ma prossimi, lontani ma accordati nei dialoghi che sfumano e si completano nelle reciproche voci.

L’atto omicida si è già compiuto, con la scena che si apre sui corpi dei due stesi a terra ad esprimere simbolicamente la dicotomia fra Eros e Thanatos che è causa della furia omicida: se Marie è un cadavere scomposto, Woyzeck è l’uomo che immagina di giacere col suo vero amore Andres. Nei suoni, che accompagnano il flusso psicologico di entrambi, più di un presagio: la certezza di un’azione feroce conclusa ma impressa per sempre. Così si ripete il vibrante rumore della crudele lama sferrata, l’ansimare profondo e sommerso di chi “non ha più nemmeno il coraggio di respirare” (dirà Woyzeck ad Andres), e i pianti di quel bambino che resta sullo sfondo di emozioni incontrollate, come il figlio di una presunta colpa inconfessabile.

Buio e luce si alleano e si combattono, sulla scena come nella mente dei protagonisti, nelle parole (va davvero sottolineato il carattere poetico e struggente di alcuni passaggi) di chi, come Marie, invoca “la musica come luce”, e di chi, per contro, si chiede “dove porterà tutto questo”, se “solo uno è il modo di amare concesso” e “cosa fanno quelli come me”. L’umanità di Woyzeck rivela la sua fragilità e il suo limite nella scelta criminale, ma non meno inquietanti sono gli altri personaggi rievocati come fantasmi, ombre, visioni, proiezioni mentali del protagonista e, al tempo stesso, innaturali parodie di virtù inesistenti: in video con i primi piani ingigantiti, gli occhi e le smorfie beffarde, espressioni volutamente deformate e paradossali, ritroviamo il Tamburmaggiore, figura seduttiva, losca e misteriosa, il Capitano, emblema di una moralità discutibile, il Dottore, portavoce di un credo religioso stigmatizzante. Ma scorrono anche scene di un più ricercato valore metaforico, non privo di rimandi cinematografici: una parata militare, illuminata di stranianti colori fluo che richiamano a vecchie tecniche cinematografiche per simulare la deflagrazione di una bomba atomica; clown e damine di un circo grottesco e surreale di vaga ispirazione felliniana; la quotidianità di un vicinato operoso che giudica per preconcetti e abitudini, mentre si riflette in fotogrammi dallo stile neorealista.

“Ci sono dei mali che nascono dentro e che fuori non si possono vedere” ripete il protagonista, in primis a se stesso, cercando di placare le intime voci assassine che gli ottenebrano la coscienza. Ma quel male non può essere la sua omosessualità. E’ semmai la sua incapacità di accettarsi senza infliggere violenza a una donna, confondendo l’immoralità di un atto brutale privo di giustificazione alcuna, con la finta moralità da offrire allo sguardo sentenzioso degli altri. Non è la povertà a misurare il grado di moralità (“Sono troppo povero per avere una morale”) ma quel coraggio di poter esprimere se stessi a cui vorrebbe donarsi, senza però riuscirvi, l’uomo nudo della scena finale: il taglio di luce sugli occhi di Marie, giunta sul proscenio, muta, infatti, in un repentino e affilato taglio di coltello che affonda nella verità di un fatto di cronaca purtroppo ancora attuale.

Non si poteva che salutare con tanti applausi sinceri, sulle note profuse di “Amore che vieni, amore che vai” di De Andrè, la lodevole volontà artistica di aderire al proprio tempo e interrogarsi su questioni ancora aperte, raccogliendo idee e intenzioni da un capolavoro teatrale che supera quel tempo e spinge oltre.

"LE MAL DU SIECLE" : sgomento e delitto di una identità repressa

a cura di Francesca Ferrari

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