La recensione

LA "MEMORIA DI UN CORPO" IN VOCE E MUSICA

CON: Giancarlo Ilari

MUSICHE E LIVE ELECTRONICS: Patrizia Mattioli

LUCI: Lucia Manghi

LETTURA SCENICA A CURA DI : Raffaella Ilari

PRODUZIONE: Europa Teatri/Giancarlo Ilari

 

Una piccola gemma di poesia teatrale civile è fiorita sul palco del Teatro Europa alla vigilia del 25 aprile, affidata all’umanità e all’esperienza di un combattente della scena (e nella vita) quale è il grande Giancarlo Ilari. Grande per la portata di vissuto personale (90 anni compiuti, “di cui circa 80 di teatro”, come tiene a precisare), immenso per la capacità di avvincere a sé l’attenzione del pubblico con un talento ancora terso, non scalfito dall’età. A dimostrazione (e il tripudio di applausi finale ne è stato il giusto compendio) che se l’azione performata viene meno, assoggettata alle leggi di un corpo non più giovane né scattante, ecco che la parola ben padroneggiata e veicolata con fervore e convinzione può sopperire orgogliosamente.

Eppure il titolo della lettura scenica- costruita su una partitura testuale ben scritta dalla penna sensibile della figlia Raffaella e composta con rispetto e intelligenza nell’ibridazione di passaggi drammaturgici noti, celebri poesie e racconti autobiografici- non perde il riferimento diretto alla dimensione fisica del corpo, ma anzi la celebra acquisendola nel titolo stesso, “Memoria di un corpo”. Ed è esattamente questo che si osserva sulla scena, il corpo affaticato e sincero di un uomo anziano, lucido e consapevole nel pensiero, seduto su una panchina posta al centro di un tappeto circolare, ordinato, di terriccio fresco, che di quel meritato momento di riposo vuole fare il suo omaggio alla Memoria: sia a quella personale, legata agli amici di gioventù, alla passione per il Teatro, all’impegno civile che lo ha sempre contraddistinto, ma anche a una memoria cittadina, collettiva e partecipativa, che trova le sue radici nei principi e nei valori della Resistenza partigiana.

Così l’immagine di quel corpo si fa essa stessa strumento di narrazione emozionante, mezzo di trasmissione potente, solenne, figura “politica” nel senso più nobile del termine, fisicità su cui il tempo ha inciso il valore intrinseco di una storia individuale, di una vocazione artistica profonda (ricordata anche scenograficamente dalle maschere teatrali appoggiate sull’assito), ma anche di una memoria pubblica da cui non si può prescindere. Il racconto prende, dunque, vita e dipana la sua ricchezza per giustapposizioni sonore (attraverso i passaggi poetici e immaginifici, tra melodie tradizionali ed evocativi accordi originali, eseguiti live electronics da Patrizia Mattioli), formali, nella scelta ponderata ed efficace di modulare la voce recitante con brani ed estratti registrati dallo stesso Ilari, e contenutistiche, nell’amalgama di ricordi, voci e immagini personali intrecciate a vicende storiche del patrimonio comune.

L’inizio di tutto, della memoria privata, ma così pure di quella pertinente alla propria professionalità di attore, non può che essere rintracciata là, nella “camera dell’infanzia”, stanza oscura di frammenti che cita Tadeus Kantor per raccontare l’urgenza viva di mettervi ordine; e poi riconduce al presente, a una stanchezza che non è più solo dell’anziano, ma di tutti, chiamati al bisogno di fermarsi e “fare memoria” di fronte a quella panchina, simbolo di relazione e ascolto, che come le altre, le poche rimaste nei parchi e nelle aree cittadine, non è lontana dall’idea più alta di Teatro “quale spazio pubblico di memoria” dove sospendere il tempo quotidiano e riflettere, ascoltare, osservare.

“Dopo tanti anni ci si sente come un archivio umano vivente” e questo vale ancora di più per un attore che ha vissuto sul palcoscenico innumerevoli vite, le ha in qualche modo abitate e fatte proprie, ma senza mai dimenticare la realtà di sguardi e sentimenti più genuini e reali. Come si svela nella commovente lettera dell’amico emigrato in Venezuela che rimpiange una Parma che non esiste più, quella prima della guerra, prima del saccheggio nel 1945 ma, idealmente, anche prima della propaganda che oggigiorno incita a fermare gli sbarchi di migranti (come scritto nel foglio che Ilari raccoglie ai suoi piedi e legge con afflizione), e prima della grave impasse politica nazionale di cui siamo testimoni, ma anche artefici. Chissà se la Memoria sopravviverà a tutto questo, chissà se saprà raccontare il passato e testimoniare il presente anche alle generazioni future. E in che modo saprà farlo? “Una parte delle nostre parole le ha stravolte il nemico fino a renderle irriconoscibili”, declama vigorosamente Ilari, citando Brecht.

La parte conclusiva dello spettacolo si carica di un’atmosfera più malinconica, che richiama al “Canto del Cigno” di Cechov, e che sembra animarsi, attraverso la leggiadra espressività vocale dell’interprete, di fantasmi e vagheggiamenti volutamente più confusi e febbrili, lasciandoli poi fluire in un momento finale di grande presa emotiva dedicato al “Monologo del non so” di Mariangela Gualtieri. Su quei versi di una profondità e verità disarmanti, Ilari si alza dalla panchina e volge le spalle al pubblico per osservare insieme lo scorrere di immagini di vita e ricordi personali proiettati sul grande schermo del fondale, quale corredo visivo della sua memoria.

Ad accompagnare quei video, parole come “Io non ho capito e dovrei, non ho capito il mondo della vita, io non ho capito la legge sottostante” e ancora “E’ poco il poco che so e di questo poco io chiedo perdono” che assumono colori inaspettati, una rinnovata bellezza e regalano una straordinaria lezione di umiltà e onestà, quando lette da un Signore del Teatro di appena 90 anni (e poco più). Nel calore degli applausi, tutto il ringraziamento del suo pubblico.

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