La recensione

ATLANTE LINGUISTICO DI SOTTERRANEO TEATRO: se le parole vengono in nostro aiuto

Puoi pensare una cosa se non hai le parole per dirla e trasmetterla ad altri? Lo spettacolo “Atlante Linguistico della Pangea” di Sotterraneo Teatro prova a rispondere con intelligente ironia e penetrante lucidità a questa domanda, addentrandosi in una Babele di lemmi e suoni che, una volta enunciati, vengono svelati e agiti nel loro significato, aprendo a un mondo di emozioni, stati d’animo, situazioni comuni e riconoscibili ad ogni essere umano, oltre le differenze sociali, etniche e linguistiche.

È sorprendente il percorso in cui ci guida l’affiatato gruppo di interpreti vestiti da giovani campeggiatori (ma per funzione narrativa anche da “inesperti” tecnici del suono) pronti ad esplorare, insieme al pubblico, una vasta landa di vocaboli appartenenti ai più disparati idiomi e dialetti, che forse potrebbero, al bisogno, venirci in soccorso. Scopriamo così che con la parola Vorfreude, dal tedesco, possiamo nominare la sensazione (di leopardiana memoria) provata quando pregustiamo un piacere che ancora deve arrivare, mentre con il termine Ubuntu, dalla lingua bantu, riusciamo a definire lo spirito di umanità libero da ogni pregiudizio (“Una persona è una persona solo attraverso gli altri”).

L’Atlante di Sotterraneo non è, però, uno spettacolo dal carattere didascalico e l’impianto drammaturgico lineare. C’è dinamicità nell’azione, c’è sincronia fra la componente video con le dirette testimonianze in lingua e la parte recitata dal vivo, c’è fusione tra la ricerca filologica e il pensiero artistico che, attraverso la scelta di quasi 50 vocaboli provenienti da tutto il globo, muove a costruire un racconto di vicinanza e uguaglianza. Il rumore del vento in sottofondo per gran parte dello spettacolo non riesce più a confondere le parole e le idee, rischiando di trasformare il tutto in un groviglio di lingue indistinte (come la Kabelsalat, l’inestricabile nodo di cavi elettrici presente in scena e al centro di una gag divertente), ed è la potenza comunicativa, primaria e vitale, a vincere, portando l’attenzione dello spettatore sulle tante tematiche evocate o anche solo sfiorate nell’enunciato: dalla causa ecologista con l’entrata in scena degli attori vestiti da renne (e la parola finlandese Tokka a descriverle) all’angoscia esistenziale e spirituale (in tedesco Weltschmerz, dolore del mondo, e Toska in russo), dall’indagine sul sentimento d’amore (con il soave Kilig, farfalle nello stomaco, ma anche il totalizzante Ya’aburnee che in lingua araba descrive la speranza di morire prima della persona amata) alle parole che meglio di altre sanno riempire il senso di vuoto rimasto dopo un addio (Awumbuk e il gallese Hiraeth).

Ma in fondo, si e ci interrogano gli stessi interpreti dal palco, “non è che oggi parliamo tanto proprio per riempire questa nostra profonda solitudine?”. Un lavoro teatrale di permeante originalità.

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