Quali significati diamo oggi alla parola rivoluzione? E cosa resta, in questo nostro tempo, dei princìpi e dei valori che, nei secoli, a partire dal 1789, hanno contribuito a fondare la moderna identità europea? Prova a riflettere su questi interrogativi, allargando l’indagine ai temi della democrazia, della libertà di stampa, della sovranità popolare e oltre, l’ultimo spettacolo della collaudata compagnia Frosini/Timpano (alias Elvira Frosini e Daniele Timpano), dal titolo simbolico “Ottantanove”, che sarà in scena sabato 5 febbraio, alle 21, al Teatro al Parco, per la seconda parte di stagione del Teatro delle Briciole/Solares Fondazione delle Arti. Partire dalla Rivoluzione Francese – “…perché nonostante tutto siamo eredi, come europei, di quel fatto storico”, dice Timpano - per poi attraversare, con un testo di dissacrante e tagliente ironia, cifra stilistica propria dei due artisti romani (anche interpreti sul palco, insieme a Marco Cavalcoli), i cambiamenti politici, i miti collettivi, i topoi storici, le retoriche del sistema culturale occidentale, smascherandone punti deboli e contraddizioni. “Ma, sotto tutta questa cenere, le braci della Rivoluzione non sono spente ed è questo che portiamo nello spettacolo”, spiega Daniele Timpano, a cui ho rivolto qualche domanda in più su “rivoluzione” e “teatro”.
Il tema della rivoluzione declinato nella contemporaneità. Cosa è oggi rivoluzionario secondo lei? “Niente, ma perché è repressa e svilita ogni ipotesi di palingenesi. Abbiamo le energie per cambiare, proviamo sdegno e rabbia per molte ingiustizie, ma non riusciamo ancora ad immaginare con forza un mondo diverso. In questo spettacolo proviamo proprio a mettere in luce le criticità dell’apparato culturale in cui viviamo, e anche la nostra incapacità a costruire qualcosa di diverso. Questo perché succede? Perché pur avendo dentro di noi una spinta utopica, pur sognando un’alternativa a ciò che già conosciamo, siamo sempre cresciuti in un mondo che ci ha dato, e continua a darci, la percezione dell’orizzonte che abbiamo visto finora. E poi c’è un altro aspetto, anche più ovvio: la parola rivoluzione oggi è abusata, la sentiamo ripetuta in tutti i contesti, dalla pubblicità all’arte, tranne che per qualcosa che sia politico. Come possiamo essere veramente rivoluzionari se non ci è stato mai concesso d’immaginare qualcosa di diverso dal liberismo, dal mercato economico come unico criterio di giudizio?”
Nel titolo del vostro spettacolo riecheggia la data della Rivoluzione Francese, ma anche quel 1989 con la caduta del muro di Berlino, dunque uno sguardo maggiore all’Europa. Come riesce l’arte teatrale ad indagare questioni così complesse quali la rivoluzione, la democrazia, la politica, i miti fondativi dell’Occidente? Attraverso quali linguaggi e forme è possibile suscitare domande e riflessioni utili? “Intanto, c’è da dire che noi, come artisti, non ci sentiamo dei forgiatori di verità, né scomode né consolatorie, ma cerchiamo con l’arma spuntata e, al tempo stesso, affilata dell’ironia, di mettere in campo degli argomenti importanti, urgenti per tutti. La strada che pensiamo sia giusto percorrere è quella di non semplificare i temi, ma di metterci in comunione con l’inquietudine del pubblico in relazione ad essi. In “Ottantanove”, ad esempio, parliamo del lontano ‘700, e quindi dei miti fondatori della modernità, ma trattiamo anche del tempo presente perché è qui che siamo calati, ed è qui, nel momento attuale, che creiamo un dialogo con lo spettatore, dove tutto il materiale scritto trova una sua forma di risonanza”
E come si lega quest’ultimo lavoro ai vostri precedenti spettacoli, tutti volti a decostruire il sistema italiano? “Ci sono linee di continuità ma anche di discontinuità. Continuità nel metodo di scrittura, di studio del lavoro, che ha portato me ed Elvira ad attingere a un’infinità di materiali diversi, dalla letteratura, al documento storiografico, dalla musica, al cinema più recente. Come sempre abbiamo preso appunti separatamente e poi li abbiamo ricuciti insieme. Nel caso specifico di “Ottantanove”, c’è stato anche un lavoro molto particolare sul suono e sulle luci. La continuità è evidente anche nei temi affrontati, ma qui, rispetto a prima, abbiamo intrapreso una sorta di allargamento storico per parlare di identità europea, non più solo italiana. È come se tutto il lavoro fatto avesse condotto a un processo di esplosione delle riflessioni. Progressivamente i nostri spettacoli hanno acquisito un carattere centrifugo e “Ottantanove” ne è, in qualche modo, l’apice”
Parliamo invece della novità sul piano dell’interpretazione, con il coinvolgimento di Marco Cavalcoli. Da cosa nasce questa collaborazione? “Nel nostro percorso siamo passati dagli spettacoli come solisti, a quelli in duo che realizziamo da più di 10 anni. Sentivamo, quindi, la necessità di aprire a un punto di vista nuovo. Abbiamo scelto Marco, che conosciamo da tempo, per il suo grande ritmo recitativo, per la sua abilità nel gestire lo spazio d’interpretazione e, soprattutto, perché è un attore che sa mettersi in ascolto, sa entrare con senso in ciò che legge, sia se deve farlo in punta di piedi oppure a gamba tesa. Volevamo un terzo attore che non fosse alieno dal nostro mondo espressivo e dalla nostra generazione e lui ci è sembrato perfetto. Il suo contributo alla restituzione scenica della drammaturgia è stato importantissimo. Sì, in questo caso, abbiamo dato vita a un trio scenico, ed essere in tre ha anche un valore simbolico…non escludiamo, infatti, in futuro, progetti allargati ad altre figure artistiche”
Dal punto di vista autoriale, è stato difficile scrivere questo progetto drammaturgico in un periodo storico così stravolto come quello attuale, un’epoca priva di riferimenti, d’ideali, di partecipazione politica, di leader? Cosa vi ha ispirato questo attraversamento “rivoluzionario”? “Come persone, prima che come artisti, viviamo nel presente, condividiamo il destino di tutti. In questo lavoro, la cui genesi risale a poco prima della pandemia, sono inevitabilmente precipitate anche parole più calde e personali, materiale autobiografico che è entrato in relazione, diretta e indiretta, con la documentazione storiografica. Riflessioni scritte da noi, più quotidiane, si sono mescolate a testi letterari alti, alle parole di Alfieri o a quelle di Hugo, a Foscolo e a Peter Weiss. Ha un forte carattere rivoluzionario anche questo inglobare e intrecciare fra loro linguaggi così differenti, testimonianze di epoche tanto diverse. Tradurre tutto questo sulla scena conferisce un senso altro al dialogo che si vuole stabilire con il pubblico”
Che i princìpi democratici e i diritti civili stiano oggi soffrendo una profonda crisi è sotto gli occhi di tutti. Non è rischioso e controproducente disinnescare anche il potenziale legato all’immaginario collettivo della rivoluzione? Non s’insinua per contro così una pericolosa retorica nichilista? “Vorremmo che passasse, invece, il bisogno di reagire a un disfattismo così conclamato, come a dire, che anche se tutto può sembrare senza speranza, occorre saper resistere e cercare un’alternativa, una via per riaccendere il fuoco della rivoluzione. Della Storia, del mondo, fino ad oggi ci è stata raccontata una versione soltanto, ed è questa che siamo portati ad accettare. Ma la questione non è pacificata e, attraverso uno spiazzante gioco teatrale, che non fa sconti a nessuno, nemmeno a noi stessi, proveremo a ricordarlo”