Il teatro fisico è diventato nel tempo la sua cifra stilistica, il genere espressivo che meglio rappresenta e comunica il lavoro artistico della coreografa, attrice, autrice e formatrice Elisa Cuppini. Tra i fondatori dell’associazione L.O.F.T. aps - una delle più attive realtà culturali presenti sul territorio di Parma sia nella realizzazione di laboratori di teatro e lettura ad alta voce, sia nell’organizzazione di rassegne di successo come quella “Sul Naviglio…”, giunta alla sua settima edizione – l’artista parmigiana ha collaborato sin dal suo debutto professionale con grandi maestri del teatro e della danza, approfondendo poi negli anni il suo particolare interesse per la fisicità scenica in ogni sua accezione. Proprio alla rassegna “Sul Naviglio…” Elisa Cuppini porterà quest’anno due anteprime: “Non So Stare” con la regia di Carlo Ferrari, in scena martedì 2 luglio alle 22.30, e “Riflesse” con Agnese Scotti, che verrà presentato nella serata di giovedì 4 luglio.
Partiamo da “Non So Stare”. Il progetto ha subito una modifica significativa nel titolo. Ci può raccontare? “Questo lavoro è nato come riflessione sul concetto di sostare, di fermarsi e stare dentro a una situazione, poiché la sua genesi risale al periodo della pandemia e delle restrizioni. L’idea originale, intitolata appunto “So Stare”, presentava una forte componente musicale e danzata. Era uno spettacolo che sentivo, però, ancora acerbo; così ho pensato di coinvolgere Carlo Ferrari e insieme abbiamo messo mano al testo, rendendolo più teatrale e drammaturgicamente strutturato, meno performativo. Cambiare il titolo in “Non So Stare” è stato poi naturale perché mette in luce le caratteristiche del personaggio che là interpreto: una donna che appunto cerca un luogo preciso dove stare, dove poter fare quello a cui è chiamata, ovvero un’audizione di recitazione, ma che è tormentata da una domanda “è qui che devo stare?”. Il gioco teatrale si sviluppa su questa interrogazione continua della protagonista a cui nessuno, però, riesce a dare risposta. E allora si resta nella domanda, in perenne richiesta di indicazioni da seguire, e di didascalie da leggere. È uno spettacolo dalle forti atmosfere beckettiane e oniriche, dove il tempo è sospeso, con il mio personaggio che si prepara proprio sul testo “Giorni Felici”. Ci sarà anche un momento di danza, molto speciale, verso la fine, che sembra consegnare alla protagonista, e quindi al pubblico, l’unica risposta sincera alla sua domanda del dove e come stare”
Come racconterebbe il teatro fisico a chi ancora non lo conosce? “Nella prosa la parola è spesso lo strumento più potente per comunicare, ma ogni parola è sintomo di altro, espressione di un pensiero e anche di un’azione. A volte nel teatro tradizionale parole e azioni vengono concepite come scollegate tra loro, ma l’azione vocale non è disgiunta dal movimento fisico. Io provengo dalla danza e, dunque, da una metodologia di lavoro incentrata sulla fisicità. Nel tempo ho voluto aprirmi al teatro fisico perché ho compreso come questo genere espressivo abbia la grande capacità di tradurre in azione la teatralità del momento. In esso si usano i codici della fisicità, del gesto, del corpo, ma basandoli su una drammaturgia. Non è mai pura coreografia: nel teatro fisico il testo è il fondamento da cui partire per compiere l’azione, dove il corpo si fa strumento teatrale, parla un linguaggio che sa raccontare di più ed offre agli spettatori che guardano un nuovo campo d’indagine”
Parliamo, invece, di “Riflesse”, anche questo un primo studio che ruota attorno a quale tema? “Trattasi di un viaggio sul concetto d’identità, ma anche di un’interrogazione sul significato di “visione”. Due donne, io e Agnese Scotti, si ritrovano davanti a uno specchio che riflette due età diverse, eppure complementari tra loro. Sono la stessa persona, oppure sono i “riflessi” di due diverse emozioni del mondo femminile? Abbiamo cercato di sviluppare una idea di simmetria partendo da due opposti, come yin e yang che insieme compongono una figura armoniosa”
Insieme a voi in scena il pubblico troverà così “un terzo personaggio”… “Sì, in un certo senso lo specchio rappresenterà un terzo elemento fondamentale con cui interagire. È il nostro interlocutore, come spesso accade anche nella vita vera: quante volte ci capita di guardarci allo specchio e parlare da soli? Ecco, in realtà è come se parlassimo a noi stessi, a quella parte di noi più intima e sincera. Lo specchio è, in qualche modo, l’oggetto magico che riflette il nostro sentire di quel momento e qui, in questo lavoro teatrale, è lo strumento in cui anche lo spettatore può rispecchiarsi, è un prisma di riflessi e riverberi in cui poter rintracciare un punto di vista nuovo, sorprendente. In scena proveremo a comporre due mondi diversi, che il pubblico, proprio attraverso il gioco di rispecchiamenti, seguirà ciascuno trovando la sua prospettiva. Solo sul finale si avrà un incontro, perché nell’idea di visione dell’altro è impossibile non far confluire anche un pensiero sul significato di relazione”
E a proposito di “visione e relazione”…secondo lei ci si identifica solo attraverso lo sguardo dell’altro o questo è piuttosto un modo per ritrovarsi? “Credo siano entrambe le cose. Io posso avere una coscienza di me stessa, ma sono fatta anche di ciò che la gente dice di me. Lo sguardo dell’altro ci definisce senz’altro, è inutile negarlo, ma noi possiamo prendere questi sguardi per completarci, confutandoli oppure accettandoli. Lo sguardo deve offrire uno strumento di comprensione dell’altro, non di giudizio".