L'intervista

Le interviste a protagonisti della scena parmigiana (e non solo) a cura di Francesca Ferrari, giornalista e critico teatrale.

EMANUELE ALDROVANDI: "In FARFALLE rifletto sul valore dell'esperienza"

È emiliano DOC, nato a Reggio Emilia nel 1985 (e laureatosi poi in Filosofia a Parma), il drammaturgo Emanuele Aldrovandi, tra gli autori teatrali di spicco della nuova generazione, oltre che apprezzato regista e sceneggiatore. Negli ultimi anni i suoi testi – alcuni dei quali già insigniti d’importanti riconoscimenti come il Premio Riccione Pier Vittorio Tondelli e il Premio Nazionale Luigi Pirandello - sono stati rappresentati nei principali teatri italiani e tradotti in diverse lingue, portando il giovane autore a collaborazioni prestigiose sia in Italia che all’estero. Anche “Farfalle”, lo spettacolo che Aldrovandi, nella doppia veste di drammaturgo e regista, metterà in scena “con ironia, acutezza e una buona dose di realismo magico” sabato 12 marzo alle 21.15, all’Arena del Sole di Roccabianca per la stagione 2021-22 del Teatro di Ragazzola, ha conseguito due brillanti traguardi, il Premio Hystrio 2015 e il Mario Fratti Award nel 2016, confermando la statura drammaturgica, l’originalità stilistica e l’intelligenza creativa dello scrittore reggiano.

Ma chi sono le protagoniste di “Farfalle”, interpretate dalle splendide Bruna Rossi e Giorgia Senesi? È stato difficile mettersi alla prova nel racconto di un universo tutto al femminile? “Non è stato semplice, diciamo così. Nel periodo della composizione del testo ho fatto tantissime domande alla mia fidanzata, che oggi è mia moglie, per avere un punto di vista che non fosse quello maschile, e poi, naturalmente, ho letto molto, soprattutto autori come Pirandello, abili nel disegnare caratteri femminili complessi, non ordinari. Infine, ho lavorato a una scrittura che non raccontasse la donna come idea assoluta, ma che fosse la storia di due donne particolari, unite da un legame speciale, e tuttavia ambiguo. In questa drammaturgia non c’è pretesa di universalità; è anche una forma di rispetto per la complessità, la pluralità dell’universo femminile. Chi sono dunque queste due donne in scena? Due sorelle, rimaste sole da piccole che, fin dall’infanzia, hanno avviato un gioco insolito con un ciondolo a forma di farfalla: chi ha in mano il pendaglio può obbligare l'altra a fare qualsiasi cosa. Il meccanismo di scambio comincia nel divertimento, nella sfida allegra fra le parti, ma con il passare degli anni esso dà vita a un gioco identitario molto più profondo, di riconoscimento reciproco. La farfalla assurge, così, a simbolo del loro legame, di una relazione familiare sui generis che vede queste due donne in un primo momento giovani e unite, pur nella loro solitudine di orfane, e via via col passare del tempo, allontanarsi, dividersi, diventare una l’opposto dell’altra. La domanda che in qualche modo provo a sollecitare è: come si può continuare a voler bene a una persona che è cresciuta diversamente da te e che fatichi a riconoscere rispetto a prima? Per il pubblico è un’occasione di riflessione sulla capacità che abbiamo d’immedesimarci nell’altro per tentarne di capire le ragioni e le scelte, anche quando diverse dalle nostre”

Il titolo evoca un’idea di leggerezza, spensieratezza, colore, gioia, ma per aprire, quindi, alla storia di una relazione estremamente complessa, a tratti torbida sul piano psicologico. Perché questo gioco ossimorico, veicolato dall’uso dell’ironia, è importante per comprendere il senso dello spettacolo? “È la chiave per seguire l’incontro/scontro fra le due sorelle che, nella crescita, maturando, sviluppano caratteristiche diverse della loro personalità. Ho cercato di raccontarlo non solo nel linguaggio, nella parola, ma anche attraverso l’immagine, le soluzioni scenografiche non realistiche. Le protagoniste, infatti, una bionda e una mora, vivono come all’interno di una bolla pervasa dal colore rosso, e qui giocano ad interpretare anche altri personaggi, quelli incontrati nel corso della loro vita. È come se si muovessero sempre sul confine tra realtà e ricordo”

Bruna Rossi e Giorgia Senesi sono le due meravigliose interpreti. Quali peculiarità tecniche ed espressive hai ricercato e infine trovato in questi due grandi talenti? “La bravura, anche se può sembrare banale dirlo. Non è uno spettacolo facile da interpretare, le due attrici vestono i panni delle sorelle ma danno vita, attraverso i loro ricordi, a ben altri dodici personaggi, passando dalla recitazione realistica, a una più espressionista, dal tono drammatico a quello più ironico. La mia scelta era poi orientata ad interpreti che fossero sui quarant’anni perché era necessario, ai fini del racconto e della comprensione dei personaggi, quel tipo di umanità, sincerità e maturità. In Bruna e Giorgia ho ritrovato tecnica attorale straordinaria e verità umana”

Il debutto italiano di “Farfalle” è stato più volte rinviato a causa dell’emergenza sanitaria e questo dopo una prima internazionale di successo presentata a New York nel 2019. Il tempo intercorso da quella prima restituzione pubblica ad oggi ha cambiato qualcosa nella struttura dello spettacolo? Quanto è avvenuto nella realtà è in qualche modo precipitato, a livello drammaturgico o stilistico, nella traduzione scenica che oggi vediamo? “Non posso parlare di veri cambiamenti sul piano strutturale, ma su quello della messinscena senz’altro sì. Il testo è stato scritto nel 2013, dunque una stesura che risale a ben prima della pandemia. Quando è stato rappresentato negli Stati Uniti, ad esempio, il regista americano ha preferito scegliere due attrici ventenni e quando è stato tradotto in Egitto, il tema centrale del testo non era più il rapporto fra sorelle ma quello dell’emancipazione femminile. Quindi, la cosa interessante da notare è che, mutando il contesto storico e geografico, sono mutate le chiavi di lettura della partitura drammaturgica. Rispetto al periodo dell’emergenza, ho notato, inoltre, che la rappresentazione teatrale, attraverso la vicenda di due persone che, pur volendosi bene, la pensano diversamente su molti argomenti, aveva messo in luce certi conflitti familiari legati ad esempio alla scelta dei vaccini o alla politica del green pass. Molti spettatori ritrovavano alcune implicazioni psicologiche e affettive vissute nella loro quotidianità”

Nelle note di regia ho letto che tra le esigenze che ti hanno spinto a scrivere questo testo c’era quella di provare ad avviare “una riflessione sul valore dell’esperienza”. Puoi spiegarci meglio? “Ho maturato una convinzione: quando le persone fanno esperienza di qualcosa di profondo tendono ad assolutizzarla e a dire inconsciamente “il mondo è così, come l’ho sperimentato io”. Si tende, dunque, a creare una propria personale narrazione della realtà per cui l’esperienza soggettiva viene oggettivata. E quando questo accade, risultiamo inevitabilmente ottusi, non siamo più in grado di accettare le esperienze altrui, che sono per forza diverse. Per natura e per la formazione filosofica che ho avuto all’università, tendo ad essere relativista, ma credo che il relativismo sia un’espressione di tolleranza, anche se mi rendo conto che, crescendo, invecchiando, raccogliendo esperienze, risulta sempre più laborioso comprendere l’Altro da noi. Il teatro ha anche il compito di restituire la complessità delle esperienze, ci fa capire quanto sia difficile avere un’opinione certa, incontrovertibile, delle cose e delle situazioni. Per questo penso che “Farfalle” offra un’ opportunità per indagare il valore di ciò che chiamiamo esperienza

Il 2021 ha segnato per te un’altra bella soddisfazione sul piano professionale. Mi riferisco al Nastro d’Argento che hai vinto per il cortometraggio “Bataclan”. Ci puoi dire qualcosa di più di questo tuo nuovo percorso da sceneggiatore? “Alla scrittura per il cinema ho cominciato a dedicarmi nel 2017; è senza dubbio un’attività che mi appassiona e stimola, dove mi metto costantemente alla prova, nell’attesa d’iniziare il prossimo progetto…un lungometraggio che dovrebbe andare in produzione nel 2023”

In un tuo recente intervento pubblico a proposito del dibattito sulla formazione del pubblico teatrale hai dichiarato “Solo attraverso la qualità riusciamo a rendere popolare ciò che è alto”. Come si conquista una semplicità di qualità? “Intanto, dobbiamo partire dal presupposto che la qualità nell’arte non è un dato oggettivo. Detto questo, credo che a fare di un’opera artistica un’opera di qualità sia la fatica di chi la realizza, la consapevolezza del fare da parte del suo autore. Conoscere al meglio il mezzo che si usa, cercare di porsi sempre il problema di cosa arriva alle persone che guardano quel lavoro, creare gli strumenti utili al pubblico per decodificare l’opera: questo, a mio avviso, è indice di una qualità che può essere fruibile a tutti. Non è facile, certo, trovare la sintesi perfetta per rendere comprensibile le cose profonde. Penso che la precisione aiuti in tal senso, perché non tradisce la complessità di un tema ma la rende chiara, accessibile, permette allo spettatore di seguire. In breve, per sconvolgere il pubblico bisogna coinvolgerlo”

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