L'intervista

Le interviste a protagonisti della scena parmigiana (e non solo) a cura di Francesca Ferrari, giornalista e critico teatrale.

MICHELE SINISI: "In TRADIMENTI" di Pinter la relazione fra scena e pubblico"

Non nasconde l’entusiasmo e la soddisfazione, Michele Sinisi, eclettico attore e regista della scena contemporanea (portano la sua firma alcune delle produzioni più di successo degli ultimi anni, quali Miseria&Nobiltà, I Promessi Sposi e La Masseria delle Allodole), al pensiero d’inaugurare la nuova stagione del Teatro delle Briciole/Solares Fondazione delle Arti, in una città come Parma che poche volte ha avuto occasione di ospitarlo. Il suo “Tradimenti”, moderno allestimento dell’opera di Harold Pinter prodotto da Elsinor, sarà, infatti, il titolo del primo appuntamento in cartellone al Teatro al Parco, venerdì 1°ottobre, alle 21. “Un lavoro ispirato, per struttura e intuizioni”, "uno spettacolo sanguigno e vivissimo", "aderente al testo e in perfetto equilibrio", come lo ha definito la critica teatrale, che vedrà l’artista pugliese impegnato nel doppio ruolo d’interprete (con lui sul palco Stefano Braschi e Stefania Medri) e guida registica.

Partire da Pinter e accendere una riflessione sul concetto di “tradimento” attraverso il racconto di una relazione extraconiugale tormentata, ma guardando a quali altre declinazioni sul tema? Contemplando quali nuovi interrogativi che esulano dallo schema tradizionale del ménage à trois? “Nell’indagine sull’umano che cerchiamo di portare avanti in questo lavoro andiamo oltre l’aspetto prettamente testuale, quello legato al plot, traslando il significato stesso di tradimento: è il pubblico ad essere continuamente “tradito” nelle sue aspettative. I personaggi, gli intrecci relazionali, le loro reazioni, e le forme della messinscena così come vengono pensate e dichiarate, spiazzano lo spettatore, lo disorientano. Tutto viene costantemente ribaltato rispetto a ciò che ci si attende. Viene poi messo in atto un altro “tradimento”, quello che si compie nel rapporto con la narrazione, sia nei confronti dell’opera originale, che viene elaborata, tradotta e quindi, come rivela l’etimologia della parola, anche tradita, sia attraverso il percorso artistico intrapreso dai suoi stessi protagonisti: Robert, il marito tradito che io interpreto, è un editore, Jerry, l’amante è un agente, Emma, dirige una galleria. Non ci si interroga, dunque, soltanto sulle relazioni ma sull’arte stessa”

Il testo pinteriano ha questa particolarità nel dipanarsi della trama: una fine che diventa inizio e viceversa, espressione quindi di una forza uguale e contraria alla linearità temporale. Sul piano drammaturgico questo procedere à rebours cosa costruisce nella relazione tra scena e pubblico? “Sì, la storia raccontata da Pinter è quella di una relazione extraconiugale ripercorsa a ritroso, ovvero dalla sua interruzione per risalire poi fino agli esordi. Questa proposta formale che coinvolge sia il piano temporale che quello spaziale, non è una novità nel teatro contemporaneo; oggi siamo un po’ figli di questa costruzione, anche grazie alla cinematografia, è un impianto narrativo a cui siamo ormai preparati. Eppure questo gioco spazio/tempo continua a stuzzicarci, a renderci partecipi, a divertirci, e anche a sorprenderci. A teatro la fruizione di una storia così congegnata è talmente avvincente da farci sentire in una specie di ludoteca, dove tuttavia non veniamo semplicemente “intrattenuti” perché è in gioco il rapporto con la nostra coscienza, con quelle sfaccettature dell’essere umano in cui siamo chiamati a rispecchiarci”

È anche una pièce dove i silenzi, le pause, i vuoti, le parole non dette hanno pari, se non addirittura maggiore, valore dei dialoghi, delle frasi esternate. Come ci si addentra da regista e al tempo stesso da interprete in un’opera così? Enunciare un pensiero è forse un po’ come tradirne la sua stessa essenza? “Paradossalmente seguendo lo spartito pinteriano si finisce per scivolare dentro a queste pause. Il testo è ricco di spunti che sanno ancora attivare nel pubblico una risposta. È per questi spunti, questi interrogativi, queste sospensioni tipiche di Pinter che mettiamo a disposizione il nostro lavoro, facendo in modo che il “taciuto” diventi funzionale alla comprensione stessa dei personaggi e della loro storia. Il rispetto per l’opera di Pinter non viene mai meno ed è proprio abbracciando quel ritmo, e quella costruzione umana, che riusciamo a cogliere la complessità e la profondità delle dinamiche in campo. La pausa diventa materia, prende vita nel racconto, anche quando sul palco procediamo illuminando le didascalie drammaturgiche, determinando luogo e anno dell’azione in corso. La scenografia si fa co-protagonista deflagrando la struttura testuale, svelando gli ingranaggi della messinscena, facendo emergere con maggior forza e vitalità i corpi e le voci dei personaggi, dunque la loro fisicità e umanità”

A proposito dell’apporto significativo dato dall’elemento scenografico, lei più volte ha sottolineato l’importanza del confronto collettivo nel processo creativo, in questo caso specifico quello con lo scenografo Federico Biancalani. Una metodologia di lavoro che in questo allestimento conta ancora di più, perché? “In Tradimenti la componente scenografica aiuta ad addentrarci nell’opera, ci accompagna, forte della concretezza della materia, ad esplorare quel mondo dell’invisibile che resta in sottofondo, ci conduce, anche visivamente, nel viaggio al contrario verso l’origine del tradimento. Resto, comunque, sempre dell’idea che l’esperienza teatrale vada vissuta fin dal principio in ascolto dell’altro; dunque, anche nel momento del processo creativo penso sia fondamentale mettersi in relazione con un altro essere umano, che oltre ad essere artefice del lavoro, rappresenti una sorta di “primo pubblico” con cui misurarsi. Credo che questo approccio aiuti molto noi registi ad evitare una certa pericolosa autoreferenzialità e contribuisca a delineare un percorso più vicino agli spettatori, più capace di appassionare. È un modo per emanciparsi dalla materia narrativa e farla fiorire proprio nel confronto con gli altri, nel dialogo, nel dibattito costruttivo” 

Altro elemento portante dell’architettura di Tradimenti è rappresentato dalla musica. In che modo essa diventa “forma” della memoria e non più soltanto colonna sonora? “È una didascalia sonora, che ci permette d’identificare un tempo, uno spazio, ma anche un’atmosfera particolare. Può essere melodia o un tappeto di rumori, ma con la musica, con il suono, entriamo inevitabilmente in profonda connessione con la vicenda. Attraverso la musica amplifichiamo il senso materico delle esperienze, traduciamo gli stati d’animo dei personaggi, e come accade per la scenografia, anch’essa è in grado d’interrompere, e quindi di “tradire”, il fluire delle aspettative. Rompe gli schemi classici per consentirci di cercare nuove prospettive da cui guardare e ascoltare”

Parlando di aspettative più in generale, molte sono state disattese dalla pandemia che ha così duramente colpito il comparto dello spettacolo dal vivo, amplificandone una crisi già preesistente. Lei crede che, a livello artistico, in questi anni il teatro italiano sia stato più tradito o più traditore? “Purtroppo, credo sia stato più traditore. Il fatto stesso di aderire a un sistema in cui spesso noi artisti non ci riconosciamo presuppone da parte del teatro un piccolo, o grande, tradimento della sua stessa funzione primigenia. È mancato talvolta il coraggio d’interrompere certe consuetudini, come quella di credere che il teatro dovesse produrre intrattenimento, quando invece il pubblico vuole farsi coinvolgere proprio da linguaggi e contenuti destrutturati, sorprendenti. Il teatro contemporaneo deve stare attento a questo: a non tradire la sua forza che risiede nel suo essere anticonformista e mai ordinario”

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