Artista e donna controcorrente, di grande tenacia e carisma, Monica Nappo non si lascia ingabbiare da definizioni ed etichette. Attrice, regista, autrice, a suo modo pioniera- è stata la prima interprete in Italia del celeberrimo 4:48 Psychosis di Sarah Kane - attraversa da anni con intelligenza, generosità, e meritato successo la scena teatrale italiana e internazionale, misurandosi oltremodo egregiamente anche in pellicole d’autore (è stata diretta fra gli altri da Paolo Sorrentino, Woody Allen, Ferzan Ozpetek e Matteo Garrone) e in produzioni televisive di qualità (la ricordiamo ne I Bastardi di Pizzofalcone e Imma Tataranni). Degli anni della sua formazione a Napoli, dove appena maggiorenne fondò un teatro con altri giovani colleghi, e dell’incontro decisivo con registi del calibro di Mario Martone, Cesare Lievi e Toni Servillo, conserva oggi tutta la passione, il coraggio, la determinazione, che la rendono una delle artiste più poliedriche e stimate della sua generazione. Il pubblico parmigiano ha potuto più volte applaudire a Teatro Due il talento drammaturgico, recitativo e registico di Monica Nappo (era lei alla guida dello spettacolo Ogni bellissima cosa e più recentemente interprete a Mezz’ore d’autore); una nuova imperdibile occasione sarà la messinscena del monologo L’esperimento, che verrà presentato a Teatro Due da mercoledì 2 (alle ore 20.30) a martedì 8 novembre e in cui si affronta, con cifra grottesca e ironica, la tematica del divorzio e dell’abbandono.
Perché in questo lavoro ha sentito l’esigenza di mettersi in gioco a 360°, dalla stesura della drammaturgia alla traduzione scenica come interprete e regista? “Io ho iniziato scrivendo i miei testi per le stand up comedy e poi a vent'anni ho cominciato a fare teatro con Mario Martone. Quando siamo rimasti travolti dalla pandemia, e abbiamo vissuto il primo lockdown, ho sentito forte il bisogno di tornare alla parola scritta. Il testo de “L’esperimento” è arrivato così, nato anche dalle lunghe chiacchierate al telefono con gli amici, soprattutto con quelli che si trovavano costretti a condividere tutto il tempo e lo spazio con un partner. Le restrizioni hanno esasperato i rapporti di coppia, esacerbato le crisi. Quello che ascoltavo l’ho mescolato alle mie personali considerazioni, ad osservazioni e sentimenti di carattere autobiografico, tra aneddoti veri e alcuni inventati, e ho deciso così di esserne anche interprete”
Lei ha spesso esplorato la drammaturgia britannica contemporanea. Si è in qualche modo ispirata ad essa per la scrittura de “L’esperimento”? “Direi proprio di sì. La mia visione teatrale è sicuramente influenzata dalla cultura britannica, avendo vissuto in Inghilterra per 13 anni ed essendo stata sposata con un autore teatrale inglese, Dennis Kelly. Mi occupavo di drammaturgia contemporanea già prima di andare a vivere a Londra ma poi l'interesse per questa scrittura è aumentato ancora di più. La sento affine al mio stile per quella capacità di vedere il comico nel tragico e viceversa”
Protagonista del racconto è una donna che scandaglia lucidamente, attraverso episodi, rimpianti e flashback, le cause del suo divorzio. Un tema, quello della crisi di coppia, che è pretesto per parlare anche di cos’altro? “Di un esperimento, appunto, che io realizzo concretamente in scena. La fine di un rapporto è poi l'occasione per interrogarsi sulle dinamiche di relazione in generale, sulla differenza che ci può essere fra abitudine e dipendenza, e di come i loro confini nel rapporto d'amore a volte possano risultare molto labili, su quello che intendiamo per “solitudine” e su come si possa attraversare una crisi, un abbandono, senza smettere di vivere, guardando oltre. È un testo che parla anche del desiderio di non volere figli e della necessità per le donne di rivendicare questo diritto”
Si parla di una fine, quindi, ma senza tristezza, con consapevolezza, ironia e insolito ottimismo. Forse che l’esperimento vero non è solo quello che la protagonista realizza in scena ma anche uno più vasto, condotto insieme al pubblico, testando la capacità di reagire al dolore, a una perdita, a un pericolo imminente? Come a suggerire, nell’elemento catartico, che esiste sempre una possibilità di cambiamento e rinascita… “Credo fortemente nella possibilità di salvezza e riscatto. Anche se la storia parla di solitudine, non può esserci una fine per questo, c'è un ottimismo di fondo. Il teatro senza catarsi non esiste. Pur parlando di una separazione, arrivo poi a toccare forme di amore e relazione diverse, universali: quella tra amici, tra familiari, tra persone. Come donna non ho mai creduto all’idea romantica della “metà che ci completa”. Siamo individui in cerca di noi stessi, della nostra affermazione nel mondo e non può essere un partner ad appagare questa personale indagine. L’importante è non sedersi mai nella tragedia, restando lì, immobili e prigionieri, incapaci di reagire e, appunto, di sperimentare”
La componente psicologica che entra in campo, oltretutto veicolata da un personaggio particolare, una donna psicologa, sembra introdurre un tema molto serio legato alla nostra attualità e che ci rimanda alle notizie preoccupanti che leggiamo sull’aumento vertiginoso di richiesta di aiuto psicologico, soprattutto tra i giovanissimi. Quanto può essere di conforto l’avvicinamento all’esperienza teatrale, sia nella semplice fruizione che nella partecipazione attiva, per affrontare il peso emotivo del nostro tempo? “È fondamentale. Penso che il teatro dovrebbe diventare materia obbligatoria nelle scuole, una materia che però non va insegnata ma agita. Avere la possibilità di esprimere sentimenti, stati d’animo, insicurezze potrebbe prevenire molti disagi. Esternare è una fortuna per noi artisti, perché abbiamo la libertà di guardarci dentro, di accettarci e provare a farci accettare. Davvero credo che chi fa teatro non si metta una maschera, ma al contrario se la tolga: io mi vedo per quello che sono e vedo gli altri, e così facendo, imparo a conoscere me stesso e gli altri. Forse il nucleo vero di tutto l’esperimento che metto in atto è proprio questo, senza quarta parete, senza negare il brutto e il bello che si cela dietro le esperienze umane”
Un testo che solo apparentemente mette in scena una prospettiva femminile. In realtà, il racconto della crisi di coppia porta alla luce anche la presa di coscienza dell’individuo, l’autoaffermazione della personalità, come accennava lei prima, e ciò al di là dell’appartenenza di genere. È più difficile o più semplice oggi compiere questo processo di autodeterminazione e consapevolezza? “Più difficile rispetto al passato forse no, ma richiede tanto coraggio e tanta forza. Ogni giorno dobbiamo lottare contro montagne di bugie, di stereotipi, di frasi fatte che, alla fine, spesso, ci beviamo come verità indiscutibili. Andare contro questi cliché, rappresenta un lavoro di grande emancipazione ma tale slancio a volte viene frainteso e interpretato come egoismo. Ad esempio, io sono una donna che ha deciso di non avere figli. Sono egoista per questo? Troppo spesso ci dimentichiamo che non riusciamo a salvare nessuno, né ad avere rispetto per gli altri, se prima non salviamo noi stessi, la nostra vera identità”
Dicevamo prima della prospettiva femminile come punto di partenza per innescare altri meccanismi di riflessione. È quello che avverrà anche nel suo prossimo lavoro a Teatro Due, “Top Girls”, che debutterà a gennaio e di cui curerà la regia? “È un testo scritto da Caryl Churchill nel 1982, nel periodo dell'insediamento politico di Margaret Thatcher, ed è interessante che venga riproposto adesso che qui in Italia abbiamo per la prima volta un Presidente del Consiglio donna, anche lei conservatrice. Quest'opera teatrale pone delle domande sul ruolo femminile che oggi sono ancora rilevanti e che ci spingono a prendere atto di una triste realtà, ovvero che la storia si ripete e che molte donne, per affermarsi, tendono ad introiettare il patriarcato peggio degli uomini. Lo stesso concetto di femminismo va ridiscusso perché questo non può portare a una netta contrapposizione con la società di sesso maschile. Il femminismo oggi non può che essere inclusivo, aperto al dialogo e al confronto, senza estremismi. “Top girls” parla di questo e di quanto sia complicato per una donna emanciparsi ed autodeterminarsi, perché spesso viene messa di fronte a scelte di vita e di lavoro difficilissime. A volte la decisione legittima di non volere figli viene vista come distorta dalla società, così come non viene compreso il desiderio di conciliare carriera professionale e maternità. Oggi dobbiamo purtroppo ancora fare i conti con aziende e datori di lavoro che mettono nei contratti di assunzione clausole sulla maternità e questo non è accettabile. In "Top Girls" toccheremo tutti questi temi urgenti. Sarà entusiasmante farlo con un cast di attrici pazzesco, così da sfatare anche un altro falso mito, ovvero che le donne non sappiano collaborare senza litigare!”