L'intervista

Le interviste a protagonisti della scena parmigiana (e non solo) a cura di Francesca Ferrari, giornalista e critico teatrale.

SANDRO LOMBARDI: "MAI DIMENTICARE GLI "ANTICHI MAESTRI"

Sarà un ideale incontro fra “maestri” quello che il pubblico parmigiano avrà il piacere di ammirare sabato 4 dicembre, alle ore 21, al Teatro al Parco, per la stagione Ottobre-Dicembre del Teatro delle Briciole/Solares Fondazione delle Arti: gli “Antichi maestri” evocati nell’omonimo romanzo di Thomas Bernhard verranno infatti tradotti sulla scena da una delle compagnie teatrali più longeve, prolifiche e applaudite del panorama nazionale, la Compagnia Lombardi-Tiezzi. Veri e propri maestri del palcoscenico, dunque. Punta di diamante dello spettacolo sarà l’attore Sandro Lombardi, uno dei più intensi e poliedrici artisti del Teatro italiano che in questo lavoro diretto dal regista Federico Tiezzi vestirà i panni del controverso protagonista Reger. Con lui sul palco i bravi Martino D’Amico, nel ruolo di Atzbacher, e Alessandro Burzotta, in quello di Irrsigler. Straordinario esempio di narrativa moderna, il capolavoro di Berhnard diventa qui occasione per innescare, attraverso l’architettura del racconto scenico, molteplici livelli d’interpretazione e riflessione, come ci racconta lo stesso Lombardi.

Uno spettacolo che verte principalmente sul tema del vedere ma che, a differenza del romanzo originale, non riguarda più soltanto il mondo dell’arte figurativa, finendo qui per abbracciare una prospettiva più ampia. Quale? “È la storia messa in campo che invita a farlo, costruita ad incastro, come un insieme di scatole cinesi: c’è un uomo che siede alla Pinacoteca di Vienna e guarda un famoso quadro di Tintoretto. È un rito che lui compie ogni due giorni, da più di trent’anni; e poi c’è un secondo uomo che lo osserva. Ma non è finita perché c’è anche un terzo uomo, il sorvegliante della sala, che osserva entrambi, e poi, ultimi ma non ultimi, ci sono gli spettatori che guardano tutto questo. La metafora che sprigiona da questo intreccio è chiara: accanto allo sguardo sull’opera d’arte, c’è quello sull’essere umano nella sua interezza. La prospettiva si allarga al sentimento, al mondo delle emozioni, che poi è quello a cui Reger, il mio personaggio, ammette alla fine di volgere il suo interesse: ciò che conta è il quadro delle relazioni, dei rapporti con chi amiamo, nel suo caso specifico il ricordo della moglie, e non quello trasferito su un dipinto. Tuttavia, nello spettacolo, c’è anche un altro aspetto che viene indagato, ed è quello relativo alla funzione dell’arte tutta, anche e soprattutto teatrale, dove il tema della visione è da sempre centrale”   

Come descriverebbe il personaggio che interpreta, uomo ferocemente critico, arguto ma anche per certi versi figura commovente? “È un uomo che manifesta contraddizioni capaci di renderlo molto simpatico a chi lo ascolta. Di primo acchito si presenta come un anziano terribile, uno di quei vecchietti nevrotici ai quali pare non andare bene nulla, che sembrano odiare tutto e tutti. Eppure, si comprende presto che dietro questa maschera di astio e intolleranza c’è una disperata richiesta d’amore e tenerezza. Io lo trovo adorabile, perché sa essere pungente, spietato nelle critiche, ma a tratti dice cose molto comiche, divertenti, e vere”

In una sua recensione, Claudio Magris scrisse a proposito dei romanzi di Berhnard “tutto accade non nella realtà, ma soltanto nel linguaggio”. In che modo questa particolare cifra narrativa è mutuata in scena? “Con la Compagnia siamo abituati, e posso dirlo riferendomi ad un’esperienza lunga oltre quarant’anni, a un genere di teatro che accade prima nel linguaggio, nel valore della parola e solo poi nell’azione. Con questo lavoro, tuttavia, richiamandoci a uno stile complesso come quello di Bernhard, che attraverso l'ossessione, la precisione, la comicità amara mira all'annientamento delle maschere grottesche dell'esistenza, temevamo che gli spettatori potessero non seguire agilmente. Ad oggi, dopo decine di repliche, il riscontro è stato invece sempre partecipe, attento e sorprendente. Mi auguro di trovare anche a Parma questa adesione magnifica da parte del pubblico”

Dicevamo delle riflessioni sollecitate dallo spettacolo, tra queste senz’altro quella relativa alla fallibilità dell’essere umano e alla sua connaturata ipocrisia. La costante ricerca di difetti compiuta da Roger nell’osservare i dipinti sembra muovere anche un acuto, mordace ragionamento sul ruolo della critica ufficiale. È d’accordo? “Non ci avevo mai pensato, ma trovo che questa sua osservazione sia interessante e assolutamente calzante all’impianto narrativo composto dall’autore. È come dire: quell’imperfezione che Reger ricerca ossessivamente nell’arte riguarda tutti, gli artisti, le loro opere ma anche chi le giudica, chi ne scrive. Quello che ci guida è poi un bisogno comune e imprescindibile, e cioè salvaguardare l’arte e avvicinarla sempre più all’umanità”

Ma chi sono gli antichi maestri del titolo e cosa significa per lei “essere maestro”? L’arte teatrale ha perduto i suoi maestri? “Per rispondere, cito le parole che mi riservò lo storico del teatro Cesare Molinari a proposito del mio libro “Gli anni felici” e della componente autobiografica là racchiusa. Lui scrisse che si capiva che “tutto quello che trovavo sulla mia strada, dagli incontri alle situazioni, sapevo trasformarlo nell’insegnamento di un maestro”. Ecco, penso che si possano definire “antichi maestri”, quelle persone, quelle esperienze che noi viviamo per imparare qualcosa di nuovo e buono, ciò da cui desideriamo apprendere per diventare migliori, per ritrovarci. Riguardo all’arte teatrale, non credo che essa abbia perduto i propri maestri. Io, ad esempio, i miei li porto sempre con me, però è anche vero che oggi c’è un evidente appiattimento. I giovani teatranti tendono a dimenticare quello che è stato il passato, lo rinnegano senza conoscerlo a fondo, senza metterlo in discussione. Ogni generazione, e questo da sempre, vede quella più grande come qualcosa da abbattere, ma il pericolo reale è prescindere da ciò che ci ha preceduto. Personalmente non riconosco la distinzione fra vecchio e nuovo, non sono categorie che tengo in considerazione. Credo che esistano soltanto il vero o l’inautentico”

Oltre al tema della visione artistica, dei limiti dell’estetica, dell’impossibilità della perfezione, Berhnard approfondisce, con tono sarcastico e graffiante, anche le fragilità della natura umana, ne mette a nudo le nevrosi e soprattutto la solitudine, ineludibile condizione esistenziale. Insomma, aspetti questi che negli ultimi due anni abbiamo vissuto tutti sulla nostra pelle, che sono stati esasperati dalla crisi sociale e che il teatro, in qualche modo, ha provato a lenire, anche attraverso sperimentazioni discutibili, come l’uso del web. Lei pensa che si possa continuare a credere all’esistenza di “un’arte grande e sublime”, per usare le parole di Reger, e che questa possa realmente rappresentare una cura, una via di salvezza? “Assolutamente sì. La grande arte ci fa bene perché tiene in vita il nostro spirito, la nostra mente, il nostro senso critico. È pur vero che alla fine dell’opera il mio personaggio dice che per lui contano i sentimenti, ma l’arte che cos’è se non un veicolo d’amore? Se si guarda con attenzione, alle spalle di un’opera artistica s’intravede sempre un essere umano che ama”

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