L'intervista

Le interviste a protagonisti della scena parmigiana (e non solo) a cura di Francesca Ferrari, giornalista e critico teatrale.

SIMONE TANGOLO: "Bellissimo raccontare il mondo della musica a teatro "

Arturo, l’impavido eroe de “L’Arcipelago dei Suoni”, coproduzione Fondazione Teatro Due e La Toscanini, curata da Francesco Bianchi, ha un nuovo volto. Nel terzo anno di programmazione di questo progetto per adulti e bambini, che ha già riscosso un grandissimo successo di pubblico, il ruolo del coraggioso protagonista, chiamato a salvare la propria città contro il mostro “mangiasuoni” Rugmor e ad assoldare, per l’impresa, una compagnia di strumenti musicali, è stato affidato al bravissimo Simone Tangolo, attore generoso e appassionato, indimenticabile interprete di alcune delle più acclamate produzioni teatrali degli ultimi anni, da “Il ratto d’Europa” a “Istruzioni per non morire in pace”, da “La classe operaia va in paradiso” a “La commedia della vanità”. Diplomato alla Scuola del Piccolo Teatro di Milano, diretta da Luca Ronconi, Tangolo ha saputo spesso conciliare la propria attitudine musicale a quella scenica, suonando sul palco strumenti quali la chitarra e l’ukulele, o costruendo spettacoli che intrecciassero nelle note musicali una componente di significato (ad esempio in “Romeo & Giulietta – L’amore fa schifo ma la morte di più”).

Dopo il giovane Carlo Sella - che ha vestito in precedenza i panni di Arturo - la scelta di un interprete come Tangolo, che ne ricordasse i colori e le caratteristiche fisiche, ma che al tempo stesso rivelasse una spiccata sensibilità musicale, oltre che un indiscusso talento recitativo, è stata naturale e sabato 14 maggio, alle ore 18, presso La Toscanini, lo si vedrà nel capitolo intitolato “La grotta delle streghe”, dedicato a tre strumenti a fiato: trombone, corno inglese e clarinetto basso (per il programma completo degli appuntamenti https://www.teatrodue.org/l-arcipelago-dei-suoni-2022/)

Come sei approdato all’Arcipelago di Teatro Due? “È il frutto di una collaborazione avviata un po’ di tempo fa con l’autore, Francesco Bianchi, che stimo profondamente. Sono stato coinvolto da lui in alcuni progetti che hanno, infine, portato anche alla formazione di un gruppo teatrale, una compagnia di giovani attrici e attori di diversa esperienza. Poter confrontarsi nel massimo rispetto reciproco, nella condivisione d’intenti e prospettive, non è così scontato. È partito tutto da lì. Sono stato poi contattato, insieme al collega Simone Chiacchiararelli, per partecipare all’ultima puntata della precedente versione de “L’Arcipelago”: ero la voce fuori campo del mostro Rugmor. Alla fine, mi sono dovuto presentare ai bambini in sala per tranquillizzarli perché la mia voce aveva davvero terrorizzato molti di loro. Ecco l’effetto dirompente del teatro!”

Spesso in scena ti sei cimentato con la musica dal vivo, assumendo svariate volte un ruolo da menestrello, di colui che commenta la vicenda suonando e cantando. Che rapporto hai con la musica e come si è evoluto nel tempo? “Non potrei sopravvivere senza musica; senza teatro forse sì (ride), ma senza la musica no, mai. Grazie ai miei genitori sono cresciuto ascoltando sempre buona musica, quella dei migliori cantautori italiani, e poi mio fratello suonava la chitarra, ero predestinato! Subito ho cercato di emularlo, ma poi mi sono appassionato davvero, mi sono esercitato tantissimo, e ho iniziato a suonare anche altri strumenti come l’ukulele e i tamburi. Quando ho cominciato a fare teatro, ho capito subito che saper suonare uno strumento era importante, che poteva far parte del mio bagaglio di conoscenze, e che la musica si intrecciava a meraviglia con la macchina teatrale; basti pensare a generi diversi dalla prosa classica, come il musical e il teatro canzone… in questi casi, soprattutto, l’elemento musicale è funzionale alla narrazione. In verità penso che la trama musicale sia sempre utile in tal senso. C’è un libro che s’intitola “La musica primitiva” dove si dice che “l’universo si è formato perché è stato emesso un suono”. Questo elemento ancestrale fa parte di noi, della nostra natura, arriva prima della parola, e così la musica, le canzoni popolari, ad esempio, diventano per noi patrimonio culturale, testimonianza della nostra storia. Come è cambiato nel tempo il mio rapporto con la musica? Beh, possiamo dire che si è intensificato al punto tale che insieme all’amico e collega Beppe Salmetti, un paio di anni fa, abbiamo provato a realizzare qualcosa di prettamente musicale: abbiamo dato vita al duo “Impermeabili” e abbiamo inciso un disco dal titolo “Non ci siamo per nessuno”, con inediti e arrangiamenti nostri, sul mood di Jannacci e Gaber ma con un’impronta più indie e contemporanea”

L’Arcipelago dei Suoni ha una peculiarità, quella di rivolgersi ai grandi ma soprattutto ai bambini. Che pubblico è, a parer tuo, quello dell’infanzia? “Un pubblico bellissimo perché ti mette continuamente alla prova: se stai fingendo, se non credi a ciò che dici e fai, i bambini lo percepiscono immediatamente. Dovrebbe essere sempre così, anche con gli spettatori adulti, ma è difficile. I bambini vogliono ascoltare una storia, gli adulti, invece, vogliono la performance, vogliono vedere il risultato del tuo lavoro di artista. Non ho mai considerato il “teatro ragazzi” un teatro di serie B, adesso ancora di più: la pandemia ci ha insegnato quanto sia importante la relazione e il teatro è un luogo dove si costruisce relazione e partecipazione. Tra l’altro confrontarmi con un pubblico di giovanissimi non era una novità per me: ho cominciato proprio con i bambini, nelle visite-spettacolo che il Piccolo di Milano organizzava dentro al teatro. Poi sono arrivati i laboratori di ERT, che tenevamo nelle scuole, la storia teatrale raccontata agli adolescenti e le scene recitate ai più piccoli. Insomma, è un pubblico che ho imparato a conoscere e che mi piace per il suo essere puro e libero”

Ma c’è uno strumento, tra quelli esplorati in questo viaggio teatral-musicale de “L’Arcipelago”, che ti ha affascinato più degli altri? “Domanda scomoda perché poi gli strepitosi professori d’orchestra con cui vado in scena potrebbero aversene a male… A parte gli scherzi, sono onesto quando dico che mi piacciono tutti gli strumenti musicali qui raccontati e mi piacciono proprio per la loro diversità, perché ognuno di loro porta qualcosa, ognuno si distingue e si armonizza con gli altri. È un po’ la metafora della relazione, no? Tutti gli elementi funzionano bene insieme, è la loro unione che fa distillare gocce di meraviglia che diventano musica. C’è però anche uno strumento che non appartiene all’orchestra e che io trovo straordinario, che sa catturarmi sempre: è la fisarmonica, spesso ascoltata in alcuni spettacoli che ho interpretato in passato. Credo abbia il potere di smuovermi ancora tanti bellissimi ricordi”

La tua particolare affinità con la musica e l’esecuzione dal vivo da parte dei professori d’orchestra della Toscanini ti hanno aiutato nel trovare la giusta strada interpretativa anche per il personaggio di Arturo? “Indubbiamente sì; la teoria musicale mi ha aiutato nell’interpretazione. Mi riferisco a una conoscenza musicale più intima, non soltanto alla parte tecnica, ma a un’educazione alla materia che mi ha permesso di entrare in consonanza con i musicisti. È stato per me un vantaggio, che mi ha dato poi modo di restituire il mondo della musica e dei suoni attraverso le parole, di raccontarlo quindi nella storia”

Questo viaggio nel mondo degli strumenti musicali si concluderà il 26 giugno con un gran finale all’Arena Shakespeare. Cosa ti aspetti da un’esperienza teatrale vissuta in uno spazio all’aperto così speciale nel suo genere? “D'istinto direi questo: di provare a sentirci in sintonia con ciò che ci circonda, di ritrovare la consapevolezza del nostro essere piccoli umani di fronte alla vastità del mondo che abitiamo. Può sembrare un ragionamento scontato, ma non lo è affatto, soprattutto oggi. Lo spazio suggestivo dell’Arena, con la sua forma classica, è nel centro della città, ma consente ugualmente di riallacciare lo spettatore con ciò che è fuori, con quell'altrove che sa restituire la grandezza del momento. La bellezza risiede proprio qui, nel sentirsi piccoli e grandi insieme, in uno spazio aperto, uniti nell’esperienza teatrale”

E nel futuro di Simone Tangolo cosa troveremo? Una maggiore e più costante presenza anche sulla scena parmigiana? “Sicuramente c’è tanta voglia di rimettersi in gioco, di mantenere viva la relazione con il pubblico quando è possibile e di accettare anche quando questa viene a mancare, per un periodo più o meno lungo. Ecco perché del futuro non mi sento di dire nulla, ma del presente sì, posso dire qualcosa: questo è un tempo di semina”

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